LA RICERCA CONDOTTA DALL’ISTITUTO “CASELLI” SULLA “COMPOSIZIONE E TECNOLOGIE DI PRODUZIONE DELLA PORCELLANA D’EPOCA DI CAPODIMONTE”

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Il materiale su cui sono state impostate le indagini è costituito da 535 reperti ricevuti in dotazione dalla Soprintedenza ai Beni Artistici e Storici di Napoli. Tali reperti sono costituiti da alcuni degli scarti ritrovati nello scavo eseguito anni or sono nei pressi della palazzina della porcellana, attuale sede centrale dell’I.P.S.I.A. “Giovanni CASELLI” ed antica sede della reale fabbrica di Capodimonte. È di seguito riportata la successione delle indagini svolte; di ognuna di esse ne sono evidenziati gli scopi, la pratica operativa e le conclusioni tratte dal gruppo di ricerca nell’attenta analisi dei risultati raggiunti. Tutti i reperti sono stati catalogati e descritti secondo le modalità previste dai metodi tradizionali in uso presso Il Ministero dei Beni Culturali; inoltre su tutti i reperti sono state effettuate misure di densità apparente che hanno consentito di individuare fasce di valori di rilevanza statistica. I reperti sono stati classificati per tipo di foggiatura (tornio, stampaggio, calibratura) e ne sono stati selezionati 22, scegliendo quelli che avevano valori della densità apparente particolarmente significativi. Per questi reperti è stata richiesta la Soprintendenza B.A.S. di Napoli di prelevare dei piccoli campioni necessari per il proseguimento delle indagini. Poiché l’autorizzazione concessa ha consentito un prelievi di qualche grammo, in qualche caso addirittura molto meno, la quantità di campione disponibile è stato il fattore limitante sia nella scelta delle indagini da effettuare sia nella loro programmazione. Pertanto si è stabilito di procedere all’esame delle caratteristiche individuali con metodi di indagini non distruttive. In prosecuzione ed approfondimento delle indagini di caratterizzazione fisica dei reperti – campioni, si sono determinate le seguenti caratteristiche: densità apparente e reale, porosità aperta e totale, assorbimento d’acqua. La prima grandezza è stata determinata con l’accuratezza necessaria e prevista dalle norme, cioè con il metodo idrostatico.

Per la determinazione della densità reale si è seguito il metodo previsto dalla norma TLC 89/41 del D.D.R. in quanto più adattabile a piccole quantità di materiale di tipo ceramico e perché consente l’uso di apparecchiature già in dotazione all’Istituto ”Caselli” o di facile aquisibilità. Il metodo suddetto consente di calcolare la densità con la precisione di 0,001 g/cc; essa viene calcolata come media di almeno due prove la cui differenza non deve superare 0,005 g/cc. Il risultato viene arrotondato a 0,01 g/cc. Nel nostro caso essendo piccole quantità di campione disponibile si sono apportate le seguenti variazioni alle procedure previste dalle norme:

  • Per evitare perdita di materiale sul setaccio, con maglie aventi apertura 63µm, si è verificato quale fosse il tempo necessario per avere con certezza un macinato su mortaio di agata avente le caratteristiche previste, tale tempo è stato aumentato del 50% e la fase di vagliatura è stata abolita;

  • La determinazione del peso del campione dopo essiccamento in stufa è stata fatta con bilancia analitica;

  • Il picnometro utilizzato, invece che da 25 ml come previsto dalla norma citata, è da 10 ml; sono state così ridotte proporzionatamente sia le quantità dei campioni da sottoporre a misura che la capacità del picnometro;

  • Al fine di migliorare ulteriormente l’attendibilità delle misure, le prove effettuate sono state in ogni caso almeno tre ed in casi particolari cinque.

Per quanto riguarda la microdurezza si è tentato previa standardizzazione di materiali noti di individuare i valori di essa sui i vari tipi di campioni. Dopo vari tentativi si è dovuto constatare che i risultati hanno un’estremamente scarsa attendibilità, soprattutto per l’elevata porosità. In effetti l’impronta ottenuta al microdurimento secondo il metodo Vickers si presenta dai contorni spesso non definiti o per cedimenti di pareti di pori sottostanti o per la presenza di cristalli relitti della cottura o con valori delle diagonali dell’impronta talmente diversi fra loro da rendere inattendibile la media di essi, da introdurre nel calcolo della durezza. Nessun miglioramento si è notato variando il carico applicato al durimento per ottenere un’impronta o più superficiale o più profonda. Gli stessi problemi si sono presentati con la determinazione secondo il metodo di Knoop.

Per la traslucidità si è fatta un’ampia ricerca sui metodi standard. Questi metodi prevedono un’illuminazione standard in apposita camera nella quale ubicare il campione, con caratteristiche geometriche non corrispondenti a quelle medie dei campioni a disposizione. Nel nostro caso si sono rilevati di applicazione estremamente costosa e complessa.

Si è tentato di procedere con un metodo per paragone con materiali commerciali. Si sono foggiate per collaggio delle piastrine di porcellana di Limoges M 10 di spessore diverso da 1 a 6 mm. Anche in questo caso sia per la forma complessa dei reperti sia per difetto intrinseco del metodo si è optato per una soluzione diversa. Si è scelta la determinazione colorimetrica con le apparecchiature in commercio, avendo cura di scegliere quella che richiedesse la minima superficie e consentisse la determinazione delle coordinate cromatiche nei vari sistemi su materiali ceramici con superfici complesse. Per questi motivi si è optato per il micro color del Lange, di uso semplice anche nel caso di superfici geometricamente molto diverse tra loro ed irregolari nella curvatura. Come standard di riferimento si è assunto il tradizionale: il solfato di bario. Inoltre l’apparecchio scelto consente misure sul posto, eventualmente per reperti musealizzati, essendo dotato di strumentazione portatile con ampia possibilità di memorizzazione di standard s e di misure effettuate. Lo scopo è anche quello di trovare una correlazione fra la composizione chimica o mineralogica dei reperti e le loro caratteristiche cromatiche. Le indagini di carattere chimico-fisico, quali analisi diffrattometriche medianti raggi X, ed in microscopia ottica ed elettronica, sono state effettuate dal gruppo di docenti e collaboratori del Dipartimento di Scienze dei Materiali e della Produzione dell?Università degli Studi di Napoli, con il quale è stata stipulata apposita convenzione.

LE FONTI DI INFORMAZIONE

I documenti originali relativi alla fabbricazione della porcellana di Capodimonte sono in gran parte perduti. Quelli dell’archivio interno della manifattura, di gran lunga i più interessanti ai fini della nostra ricerca, furono trasportati a Madrid, allorché Carlo di Borbone divenuto re di Spagna, nel 1759 decise di chiudere la fabbrica di Capodimonte e di ricostruirla in Spagna. Ivi essi furono distrutti in seguito all’incendio scoppiato nel 18112 nella nuova fabbrica di Buen Ritiro durante la guerra franco-spagnola.

Migliore sorte non è toccata ad altri documenti; in particolare quelli periferici relativi al carteggio tra il re e lo staff del suo governo con i fornitori delle materie prime. Anch’essi furono distrutti, durante il secondo conflitto mondiale, da un incendio provocato dalle truppe tedesche nel settembre del 1943 ad una villa di San Paolo Belsito (Napoli) dove erano stati trasferiti insieme ad altri documenti dell’archivio di Stato di Napoli. Fortunatamente questi ultimi erano stati oggetto di un meticoloso e paziente lavoro di ricognizione da parte dello storico Camillo Minieri Riccio ed il chimico ceramista Giuseppe Novi. Come risultato del loro meritorio lavoro, essi pubblicarono nel 1878 rispettivamente quattro e due memorie negli Atti dell’Accademia Pontaniana. Quelle del Minieri Riccio sono ricchissime di notizie utili per la ricostruzione delle vicende non solo della manifattura di Capodimonte, ma anche quella ferdinandea di Napoli. Nelle due memorie di Novi vengono prese in esame, dal punto di vista merceologico e tecnologico, tutte le notizie relative alla lavorazione della porcellana in Napoli a partire da quella di Capodimonte fino a quelle meno famose dei suoi tempi.

Gli altri studiosi che hanno scritto sull’argomento prima del 1943, pur avendo a disposizione gli stessi documenti non aggiungono molto di più a quanto riportato dai primi due. Partendo da presupposti diversi, preziosi contributi ai fini della nostra ricerca ci provengono da parte di Di Pietro D’Onofri (1789) e da Orazio Rebuffat (1905).

D’Onofri ha tracciato la prima storia della porcellana di Capodimonte. Egli essendo figlio di un generale di Carlo di Borbone, era introdotto nella corte sia di Napoli che di Madrid, e quindi ha potuto riferire preziose e numerose notizie apprese oralmente, alcune molto interessanti.

Rebuffat, professore di chimica applicata all’Università di Napoli, è l’autore dell’unica analisi della composizione chimica della nostra porcellana di cui disponiamo i dati.

Ultimamente sono stati portati alla luce nuovi documenti originali, soprattutto ad opera di Francesco Stazzi (1972), Francesco Strazzullo (1979) e Silvana Musella Guida (1983, 1986). Essi hanno contribuito anche con i loro studi ad arricchire il quadro delle conoscenze che abbiamo attualmente in merito alle vicende di manifattura.

A tale riguardo resta sempre una fondamentale l’opera di Minieri Riccio. Tuttavia, essa è pur sempre una documentazione di seconda mano, per cui al fine di un suo uso proficuo è opportuno stendere alcune righe supplementari. Molte furono le difficoltà che lo storico, non esperto di ceramica, dovette affrontare nella decifrazione degli undici fasci di manoscritti che si trovò ad avere a disposizione. Per tale ragione le informazioni, soprattutto quelle inerenti alla nostra ricerca, sono state riportate in maniera frammentaria, acritica e spesso contraddittoria. Non mancano errori ed imprecisioni connessi per lo più nella trascrizione dei documenti. Alcuni di essi sono stati messi in evidenza dalla letteratura specialistica; altri sono abbastanza banali come quello di riferire fatti avvenuti con la data del 31 giugno. Quelle ritenute più opinabili tra i lavori di Minieri Riccio e ripresi da Stazzi sono:

  • nel febbraio 1744 arrivo a Capodimonte un solo carico di tarso da un unico luogo della Calabria e non da due, come una lettura non attenta del testo lascerebbe intendere (Minieri Riccio pp. 27-28 e Stazzi 1972 pp. 55-57);

  • l’esclusione di Livio Schepers da Capodimonte non avvenne il 26 luglio (domenica), ma il 26 agosto 1744, visto che come risulta dallo stesso Minieri Riccio egli fino a quest’ultima data era presente in fabbrica. (Minieri Riccio 1878 p. 45 e pp. 127-129);

  • l’ora delle ventitre e trenta, indicata come termine della giornata lavorativa, ha suscitato più di un commento sulla durezza dell’orario di lavoro a Capodimonte. In realtà quest’ora corrisponde alle diciassette e trenta del nostro sistema orario;

  • non fu Gaetano Schepers, ma Gaetano Fumo ad opporsi all’ammissione in fabbrica di un intagliatore, essendo egli il padre dei sei fratelli che già lavoravano nella fabbrica come intagliatori. Si arrovellò alquanto Stazzi a cercare i sei figli che Minieri lascia intendere erroneamente di Schepers, non risultando essi nello stesso stato di famiglia di quest’ultimo. (minieri Riccio p.49 – Stazzi 1972 p.128-131).

RICERCA BIBLIOGRAFICA DA RIVISTE E TESTI SPECIALIZZATI

È stata eseguita una ricerca capillare ed approfondita tra la letteratura specializzata alfine di reperire informazioni il più attendibili possibile su risultati analitici, sulle materie prime, su elementi caratteristici sia della della porcellana d’epoca di Capodimonte che sulle altre, in particolare quella cinese e su metodologie analitiche studiate ed in qualche caso sperimentate. Inoltre è stato approntato un archivio dal quale è possibile evincere gli argomenti trattati e gli estremi della rivista originaria.

CATALOGAZIONE DEI REPERTI

È stata elaborata una scheda di identificazione nella quale sono riportati in modo conciso e preciso tutti gli aspetti che permettono di risalire alla natura dell’oggetto di appartenenza, alla sua forma originaria ed alla sua destinazione d’uso. Un’attenta osservazione di ciascun reperto è stata fatta al fine di ipotizzare, in maniera ragionevole, la tecnica di foggiatura usata. Sono stati rilevati segni significativi, quali impronte, qualche marchio e, qualora vi fosse la presenza di rivestimento, rilevarne difetti. Tutto ciò ha permesso una connotazione di ciascun reperto che, arricchita da indagini preliminari di ordine fisico, quale determinazione della densità e della porosità apparente, ha permesso di avere una prima sommaria idea della sistematica operativa utilizzata all’epoca e formulare una selezione mirata dei reperti tra cui scegliere, previa autorizzazione degli organi competenti, un numero ristretto di campioni sui quali eseguire indagini più circostanziate. Tali indagini sono state sia di ordine fisico che chimico, sia distruttive che non. I risultati che raggiunti nelle varie prove trovano collocazione nella scheda di catalogazione del reperto a cui si riferiscono. Le tecniche di foggiatura più utilizzate risultano essere quelle per calibratura, tornitura e stampaggio, la qualcosa è in accordo con le disponibilità operative del tempo e con la loro destinazione d’uso. C’è da rilevare che i reperti dotati di rivestimento, di marchio e di particolari decori sono alquanto rari, la qualcosa si spiega col fatto che sono oggetti di scarto. Un’altra considerazione interessante che è possibile fare riguarda il metodo di cottura utilizzato: alcuni reperti mostrano chiari segni di sovra cottura, mentre in generale si denota una cottura in atmosfera ossidante; altri reperti evidenziano una accentuata stratificazione con presenza di caratteristiche “sbollature”. Ciò è ragionevole attribuirlo ad un sensibile sviluppo di masse gassose in sede di cottura legato presumibilmente alla composizione dell’impasto. Tutti i reperti catalogati sono stati fotografati evidenziandone le parti più rappresentative con opportuni ingrandimenti. Lo scopo di questa operazione è stato quello di agevolare l’identificazione dei reperti stessi in quanto si hanno possibilità più agevoli per il raffronto con oggetti dell’epoca in possesso della Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Napoli.

DETERMINAZIONE DELLA DENSITÀ E DELLA POROSITÀ APPARENTE

La prima indagine di natura fisica non distruttiva realizzata è stata la determinazione della densità e della porosità apparente. Una volta in possesso di questi dati si sono preparati degli istogrammi statistici, sia generali che circostanziati al sistema di foggiatura, che hanno consentito di fare una prima cernita, al fine di individuare i reperti da cui prelevare campioni da sottoporre ad indagini distruttive, sia di natura chimica che di natura fisica. Sono stati preparati istogrammi da cui è possibile rilevare le frequenze dei valori di densità apparente. Gli istogrammi sono stati eseguiti prima su tutti i reperti indipendentemente dalla tecnica di foggiatura e poi singolarmente per i reperti foggiati a tornio ed a calibro. Per i reperti foggiati per stampaggio l’istogramma non è stato eseguito data loro limitatezza di numero. Inoltre il campo delle densità apparente è stato sia in un intervallo di valori più ampio che più ristretto.

PRELIEVO DI CAMPIONI PER ANALISI CHIMICHE E FISICHE

Alla luce delle indagini effettuate, il gruppo di ricerca ha richiesto alla Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Napoli, l’autorizzazione prelevare campioni dai reperti ritenuti significativi. Tale richiesta è finalizzata alla possibilità di eseguire indagini più accurate. Le indagini previste sono:

Determinazione della densità reale;

Determinazione della porosità reale;

Analisi qualitativa e semiquantitativa ai raggi X;

Analisi qualitativa e semiquantitativa con la sonda elettronica;

Analisi quantitativa all’assorbimento atomico con fornetto di grafite;

Indagine al micro color.

In tabella è riportato l’elenco dei reperti per i quali è stata richiesta l’autorizzazione a prelevare campioni e l’elenco dei campioni inviati all’Università.

DETERMINAZIONE DELLA DENSITÀ REALE DI PRODOTTI CERAMICI IN ACCORDO ALLA NORMA TLC. 8941 DELLA D.D.R.

I valori della densità reale riscontrati sono riportati in tabella.

DETERMINAZIONE DELLA POROSITÀ TOTALE

Tali valori sono riportati in tabella

DETERMINAZIONE DEL CAMPO CROMATICO

Tale indagine è stata eseguita al micro color Lange. Attraverso tale indagine sono stati rilevati dati inerenti alla caratterizzazione del campo cromatico dei reperti in esame. Essi sono riportati attraverso tre sistemi di misura diversi. In particolare per i valori delle coordinate cromatiche è stato fatto un raffronto tra i campioni suddivisi per sistema di foggiatura oltre che ad un raffronto generale.

ANALISI CHIMICHE DEI REPERTI

La composizione chimica della porcellana borbonica è stata oggetto di indagine già in passato, prima tra tutte quella effettuata da Rebuffat nel 1905, su alcuni oggetti prodotti nella Real Fabbrica di Capodimonte. Tuttavia svariati motivi giustificano la ricerca chimica effettuata sui reperti di Capodimonte. Innanzitutto la loro morfologia ed il sito di ritrovamento li qualifica inequivocabilmente come scarti di produzione. La loro composizione poteva quindi risultare identica a quella degli oggetti destinati alla vendita ed esaminati da Rebuffat ed altri, oppure più o meno marcatamente diversi. Nel primo caso si sarebbe addivenuti alla conclusione che la loro origine è legata a comuni difetti di produzione delle porcellane, oppure a prove di cottura, se quest’ultima ipotesi fosse stata confermata dagli esami tecnologici e microstrutturali. Nel secondo caso si sarebbe ipotizzato che sono il risultato di prove eseguite per la messa a punto degli impasti. Il notevole numero dei reperti dava la possibilità di formare una campionatura selezionata in base alle tecniche di foggiatura. Cosicché dall’esame dei risultati analitici si sarebbero potuti individuare le eventuali correlazioni tra composizione chimica e tecniche di fabbricazione in uso all’epoca. Infine estendendo l’analisi ad un numero più ampio di costituenti ed in particolare a quelli minori, si sarebbero ottenuti indizi sulla provenienza delle materie prime, integrando così i risultati delle ricerche documentali.

SVILUPPI DEGLI ESAMI CHIMICI

Sui campioni prelevati da 21 reperti sono state determinate le percentuali dei seguenti componenti: SiO2, Al2O3, CaO, Na2O, K2O, MgO, Fe2O3, MnO, SnO2, NiO, BaO. Di questi la silice è stata analizzata per via ponderale, tutti gli altri componenti mediante spettrofotometria di assorbimento atomico o di fiamma in emissione. La fase preliminare di disgregazione della porcellana è stata realizzata sia con tecniche di fusione a secco, sia mediante decomposizione a umido con acido fluoridrico.

DETERMINAZIONI STRUMENTALI

Per le misure spettrofotometriche è stato usato la seguente strumentazione: assorbimento atomico marca Hitachi ad effetto Zeeman con correzione del fondo completo di atomizzatore elettronico ed auto campionatore; assorbimento atomico marca Varian, Spectra A.A. 20 Plus.

Per compensare gli effetti matrice sono stati preparati standards aventi la stessa composizione media presunta dei campioni e contenenti, di volta in volta, variabili degli analiti preparati allo stesso modo, escludendo però gli analiti della loro composizione. Per la porcellana d’epoca si è assunta la seguente composizione media:

PbO, SnO2, TiO2, MnO, NiO, BaO

La soluzione di silice occorrente per produrre la matrice è stata ottenuta dalla disgregazione dello standard balido B.C.S.-C.R.L. n. 313/1, avente purezza certificata 99,87%. La composizione di questi standard risulta essere:

British Chemical Standard 313/1

Per gli altri elementi sono stati usati standard per assorbimento atomico delle marche: Baker, C. Erba e BDH, aventi concentrazione 1000 ppm di ciascun elemento. Questi standard sono stati diluiti prima dell’uso, secondo le esigenze dei prelievi.

DETERMINAZIONE DEL PIOMBO E DELLO STAGNO

Sono state impiegate le soluzioni cloridriche risultanti dalla disgregazione con NaOH portate al volume finale di 500 ml con HCl 0.1 N. Gli standards ed il bianco sono stati preparati con la procedura riportata di seguito:

soluzione concentrata di silice:

256,5 mg dello standard solido indicato sonostati fusi con NaOH, applicando la stessa procedura seguita per i campioni. La soluzione è stata portata al volume finale di 500 ml, cosicché la concentrazione di SiO2 è risultata 512 mg/l.

Bianco:

Il bianco è stato preparato utilizzando: la soluzione concentrata di silice (512mg/l), gli standards per assorbimento atomico degli altri composti e riportati qui di seguito:

SiO2 mg/l: 164,0

Al “ : 8,50

Fe “ : 0,70

Mg “ : 0,48

K “ : 5,00

Na “ : 4,50

Ca “ : 3,50

Bario e Nickel sono stati esclusi dalla composizione del bianco perché ad una letteratura preliminare dei campioni sono stati riscontrate risposte strumentali praticamente nulle per tutte e due gli elementi. Anche Titanio e Manganese sono stati esclusi dal bianco in quanto presenti nella porcellana in ammontare assai più piccolo degli altri costituenti, la loro influenza sull’effetto complessivo della matrice è stato ritenuto perciò trascurabile. Queste considerazioni valgono anche per gli altri bianchi e standards di misura.

Standards:

La preparazione e la composizione degli standards non differiscono da quelle del bianco, tranne che per le aggiunte di quantità variabili di piombo e stagno. In particolare, per coprire l’intervallo analitico, sono state preparate due serie di 5 standards aventi ciascuno i seguenti intervalli di concentrazione:

1^ serie Pb (mg/l): da 0,05 a 0,20

a bassa conc. Sn (mg/l): da 0,15 a 0,60

2^ serie Pb (mg/l): da 0,30 a 1,00

ad alta conc. Sn (mg/l): da 0,70 a 1,25

Misure:

Le misure sono state eseguite in assorbimento atomico.

La prima serie di standards è stata usata per le misure dei campioni a concentrazione più bassa. Gli altri campioni, la seconda serie di standards ed il bianco, sono stati diluiti nello stesso supporto, per rientrare nell’intervallo di linearità strumentale. I campioni n. 54 n. 424, che contengono quantità di piombo e stagno molto più elevate rispetto agli altri, sono stati diluiti ulteriormente, senza rispettare lo stesso rapporto per il bianco e gli standards. I risultati delle misure espressi in % in peso degli ossidi, sono riportati in tabella.

DETERMINAZIONE DI: Fe, Mn, Ti, Al, Ca, Mg, Na, K

Questi elementi sono stati determinati sulle soluzioni nitriche risultanti dalle disgregazioni con tetraborato di Litio. I bianchi sono stati preparati da una soluzione conc. Di silice e dagli standards per A.A. degli altri elementi, esclusi gli analiti. Sono riportate di seguito le indicazioni relative alle composizioni delle soluzioni che sono state preparate per le analisi. Da rilevare che considerati i modesti tenori di piombo e stagno riscontrati sui campioni, questi due elementi sono stati esclusi dalle composizioni dei bianchi e degli standards, al pari di Ba, Ni, Ti, Mn, di cui si è detto in precedenza. Gli ultimi due elementi sono stati aperti solo agli standards relativi alla loro misura.

Soluzione conc. di silice

519,1 mg di silice standard (BCS-C.R.L. N. 313/1) sono stati fusi con tetraborato di litio, applicando la stessa procedura seguita per i campioni. La soluzione è stata portata al volume finale di 1000 ml con HNO3 0,1 N, cosicché la conc. di SiO2è risultata 518 mg/l.

Composizione del bianco utilizzato per le misure di Fe, Mn, Ti

SiO2 mg/l: 164,0

Al “ : 8,50

Mg “ : 0,48

K “ : 5,00

Na “ : 4,50

Ca “ : 3,50

Intervallo di conc. degli standards utilizzati per le misure di Fe, Mn e Ti

Fe (mg/l) : da 0,40 a 1,00

Mn (mg/l): da 0,003 a 0.030

Ti (mg/l) : da 0,10 a 0,50

Composizione del bianco utilizzato per le misure di Al

SiO2 mg/l: 164,0

Fe “ : 0,70

Mg “ : 0,48

K “ : 5,00

Na “ : 4,50

Ca “ : 3,50

Intervallo di conc. degli standards utilizzati per le misure di Al

Al (mg/l) : da 0,50 a 10

Composizione del bianco usato per le misure del Na e del K

SiO2 mg/l: 164,0

Al “ : 8,50

Mg “ : 0,48

Ca “ : 3,50

Fe “ :0,70

Intervallo di conc. degli standards utilizzati per le misure del Na e K

Na (mg/l) : da 2,00 a 6,00

K (mg/l) : da 3,00 a 8,00

Ti (mg/l) : da 0,10 a 0,50

Composizione del bianco utilizzato per le misure del Ca e Mg

SiO2 mg/l: 164,0

Al “ : 8,50

Fe “ : 0,70

Mn “ : 4,50

K “ : 5,00

Intervallo di concentrazione degli standards utilizzati per le misure del Ca e del Mg

Ca (mg/l) : da 2,00 a 8,00

Mg (mg/l) : da 0,20 a 0,80

MISURE

A) Fe, Mn e Ti

Le misure sono state eseguite in assorbimento atomico. Il Mn è stato determinato senza diluizione. Le misure del Fe e del Ti sono state eseguite sui campioni, standards e bianco, diluiti negli stessi rapporti. I risultati, espressi in % sui loro rispettivi ossidi sono stati riportati in tabella. Parallelamente alle misure dei campioni, è stata effettuata un’analisi di controllo sullo standards solido di refrattario siliceo BCS n. 314, avente il seguente contenuto certificato di Fe Ti:

Fe2O3 mg/l : 0,53

TiO2 Mg/l : 0,13

Di seguito i risultati delle analisi

1^ det. 2^ det.

Fe2O3% : 0,535 0,534

TiO2 % : 0,189 0,186

B) Al

Le misure sono state eseguite in assorbimento atomico. I campioni, gli standards ed il bianco sono stati diluiti negli stessi rapporti. Per la lettura del campione n.54 il quale non rientra nell’intervallo di conc. prevista, dato il tenore basso di Al, è stato necessario diluire gli standards. Per mantenere inalterata la matrice queste diluizioni sono state effettuate con il bianco. I risultati delle misure espressi in % in peso dell’ossido sono riportati in tabella. Anche in questo caso è stata effettuata un’analisi di controllo sullo standard solido di felpato MBS 70/a, avente la composizione certificata:

SiO2% : 67,1

Al2O3% : 17,9

Fe2O3% : 0,075

TiO2% : 0,01

CaO% : 0,11

BaO% : 0,02

Na2O% : 2,55

K2O% : 11,80

Rb2O% : 0,06

Per la disgregazione e l’analisi del feldspato si è eseguita la stessa procedura usata per i campioni, con un’unica differenza: per rientrare nell’intervallo di conc. adatto alle letture, il feldspato è stato diluito con H2O bi distillata in q.tà maggiore rispetto agli standards. I risultati delle analisi:

1^ det. 2^ det.

Al2O3% : 18,12 18,02

Le differenze in meno rispetto al valore certificato sono da attribuire al diverso rapporto di diluizione del campione e degli standards.

C) Ca, Mg, Na K

Le misure del Ca e del Mg sono state effettuate in assorbimento atomico; Na e K in emissione. Affinché si rientrasse negli intervalli di linearità strumentale i campioni, gli standards e i bianchi sono stati diluiti negli stessi rapporti.

Produzione della porcellana artistica e tradizionale di Capodimonte e della terraglia artistica e tradizionale di Napoli

La produzione ceramica a Napoli è stata ininterrottamente al centro di tutti gli svolgimenti più significativi di quest’arte che si sono succeduti nel Mediterraneo, dalla preistoria ai fasti della Magna Grecia, dalle maioliche islamicheggianti al grande momento della produzione di età aragonese ed alla straordinaria fioritura della maiolica tra ‘600 e ‘700.

pol

La produzione, poi, della porcellana a Napoli vanta due episodi storici, difficilmente separabili tra loro, che le hanno conferito un posto di assoluta preminenza, insieme a Sévres ed a Meissen, nella produzione del settore in Occidente: il breve, ma quanto mai significativo episodio della Real Fabbrica della Porcellana di Capodimonte dovuto ad una precisa iniziativa politica di Carlo di Borbone, e l’episodio, di durata non molto più prolungata, di quella Real Fabbrica con cui Ferdinando IV di Borbone, prima a Portici e poi a Napoli, ha inteso precipuamente continuare, con analoghi intenti politici, la produzione prestigiosa della fabbrica istituita dal padre, avvalendosi per suo conto del prestigio che a lui doveva conferire tale continuazione1. L’eredità – problematica come proprio delle grandi eredità – , che la prima delle due manifatture, in particolare, ha storicamente posto in essere e lasciato al territorio2, non ingiustamente si è considerato che sia addirittura sconfinata nel mito3.

In sede, poi, di considerazione politico-economica della tradizione manifatturiera della porcellana a Napoli, non si può tralasciare di richiamare quali siano anche soltanto i risvolti in termini di flusso turistico della presenza in questa città del così detto “salottino della regina Maria Amalia”4, il quale ordinariamente si considera come il monumento emblematico della produzione storica della porcellana a Napoli. Taluni aspetti di questo monumentale boudoir hanno una validità duratura e su di essi non possono interferire le fluttuazioni della fortuna critica del rococo, al cui ambito di gusto solitamente si ascrive quell’arredo. Sono questi gli aspetti che maggiormente devono interessare chi tiene di mira la attuale produzione manifatturiera della porcellana. Essi sono certamente: la complessa organizzazione di un insieme di opifici, di tecnici e maestranze appartenenti a diversi settori manifatturieri5; il cimento senza quasi confronti con problemi di progettazione, realizzazione6 e messa in opera di un complesso anche più articolato di quanto non sia ora, poiché era comprensivo di un pavimento anch’esso in porcellana7; la organizzazione del cantiere dell’atto della messa in opera. Egualmente rilevante è la decisa proiezione culturale europea di un progetto di “salottino” cinesizzante secondo un orientamento proprio appunto delle corti europee 8. Tale progetto ha richiesto lo studio di più di uno specialista di cose orientali.

Ora, non si può nascondere che, mentre a Sèvres ed a Meissen, grazie alla accorta politica dello Stato che ha conservato ad esse uno statuto di manifattura statale, hanno continuato ininterrottamente la loro tradizione ad un livello sostenutissimo per cui esse rappresentano a tutt’oggi l’eccellenza della produzione del settore, a Napoli, dopo momenti tecnicamente, produttivamente e culturalmente così alti, i due episodi delle manifatture borboniche hanno dato l’avvio ad una tradizione avviatasi, in assenza di una tutela istituzionale, e per la sua appartenenza al fragile contesto della economia meridionale, a subire il grave danno della utilizzazione spesso abusiva e squalificante di un nome dal prestigio immenso per prodotti troppo spesso a tale tradizione del tutto inadeguati. È oramai proverbiale che il nome di Capodimonte, indubbiamente il più prestigioso che sia legato alla produzione ceramica nazionale, venga utilizzato per prodotti di Taiwan, magari in resina.

Esattamente a simili fenomeni fa fronte la legge 188/1990 sulla Tutela della ceramica artistica e tradizionale e della ceramica di qualità, ed è massimamente legittima la aspettativa che quello che è un bene economico e culturale venga tutelato, potenziato e fatto fruttare. Il preambolo del disegno di legge, che è del 1980, è puntuale: “Va…immediatamente osservato che l’interesse posto dagli amatori verso queste rievocazioni (quelle costituite dalle produzioni di tipo tradizionale), mentre ha suscitato un lucroso commercio interno ed esterno dando origine ad una redditizia fonte di lavoro per numerosi complessi produttivi, soprattutto a carattere artigiano e piccolo industriale, ha altresì determinato un’inquinamento, un deterioramento delle tipologie caratteristiche, una confusione che non può essere apportatrice di danni notevoli dai vari punti di vista, culturale non meno che economico. Infatti, l’incultura dell’acquirente grossista, aiutata dalla irriflessiva necessità di guadagno immediato del produttore, ha indotto a deformare i temi per semplificazione ed adeguamento al risicato compenso ed a trasferirli ad una originaria località di invenzione ad altra estranea che mostrava di eseguirli a condizioni più favorevoli, con conseguenze non di rado deplorevoli per il decoro del lavoro italiano”9.

Da tutto ciò si trae nel modo più inequivoco che l’applicazione della legge per la Tutela della ceramica artistica e tradizionale e della ceramica di qualità, non può essere, come qualcuno ha creduto, un’occasione propizia per ottenere un’artificiale promozione istituzionale ad operazioni produttive di nessun respiro già in atto da anni sui livelli più bassi, anche sul piano dei ricavi, ma esattamente una rigorosa definizione in termini tecnici e scientifici dei limiti tutelati dalla legge, entro cui i produttori siano insieme incoraggiati ed obbligati a tenersi al livello di dignità qualitativa stabilito storicamente dalla migliore tradizione territoriale. Per altro, la rispondenza impressionante del quadro nazionale qui tracciato dal legislatore e quello regionale ben si può riscontrare in analisi come quelle condotte in una pubblicazione promossa dall’Assessorato all’Industria e all’Artigianato della Regione Campania del 198410, e, dunque, occorre dire che questa regione ha nella produzione della porcellana di Napoli all’insegna del nome di Capodimonte forse l’esempio più alto del bisogno di un intervento legislativo e più estesamente istituzionale per tutelare le reali potenzialità tecniche e produttive del territorio e dare ad esse modo di svilupparsi adeguatamente, contro qualche ripiegamento irriflessivo, dettato dal difetto di una vera mentalità imprenditoriale, sull’immediato e più facile guadagno di qualche imprenditore, esattamente come ha visto il legislatore sul piano nazionale.

In questo senso vanno poste come necessità esplicitamente definite, a cui fa fronte il disciplinare che qui segue, quelle che si trovano definite ancora in quel preambolo:

1) difendere i tipi nella loro purezza originaria e impedirne la degradazione;

2) definire le zone di origine e di produzione delle singole tipologie, ad evitare invasioni di campi ed una concorrenza che non può andare a detrimento del prodotto;

3) munire le zone tipiche maggiormente attive in Italia di un distintivo, che contrassegni il prodotto a garanzia di qualità…”11.

Dunque, occorre dire, a proposito di quest’ultimo punto, come conseguenza di quanto si è sin qui detto, che non vi può essere ragionevole dubbio che, se il nome di Capodimonte si pone universalmente come significativo del grande prestigio artistico e tecnologico che la Real Fabbrica di Carlo di Borbone ha conferito alla produzione locale, la legge 188, con espliciti ed insistiti richiami all’obbligo di rispettare il nesso tra i luoghi e le produzioni che autenticamente li hanno caratterizzati, impone un uso corretto dell’emblema che indissolubilmente a tale fabbrica si lega, cioè del giglio azzurro. Nello stesso tempo deve restare chiaro che è storicamente la fabbrica madre, cioè quella di Capodimonte, che ha instaurato un prestigio e lo ha conferito alla tradizione napoletana12, stabilendo, di fatto, un vincolo qualitativo al quale, senza obblighi esterni ma per ambizione di qualità, si è per prima attenuta la fabbrica ferdinandea. Concludendo la sua esplorazione sulle porcellane della Real Fabbrica, Francesco Stazzi, nel 1972, formulava questa proposizione che giudicava lapalissiana: “ da quando siamo venuti fin qui esponendo risulta chiaro che per porcellana di Capodimonte si deve intendere soltanto quella uscita dalla Real Fabbrica di Carlo di Borbone (1743- 1759)”13. Dunque, il marchio della porcellana di qualità a Napoli è insopprimibilmente il giglio azzurro associato al nome di Capodimonte14. Qualsiasi altra soluzione va contro il senso della legge 188, mentre il preambolo al suo progetto fa un preciso riferimento a quella “in cultura dell’acquirente grossista” che, così, non può essere assunta a punto di riferimento, come talvolta è stato, né per questioni di marchio, né di linea di produzione. È questo, in tal modo, il marchio con cui il seguente disciplinare stabilisce sia munita la produzione del territorio di Napoli. In ciò, questo disciplinare non fa altro che conformarsi a quanto ha già, per suo conto codificato, una consolidata letteratura scientifica sull’argomento.

Poiché, poi, la produzione della seconda delle due fabbriche borboniche, di quelle che le hanno seguite immediatamente dopo e di quelle che ne hanno continuato la tradizione, è stata caratterizzata da una produzione di manufatti in terraglia che ha raggiunto, sul piano qualitativo, punte molto alte15, tanto che non sono poche le opere in terraglia che hanno un posto di riguardo nella scultura napoletana della fine del Settecento16, e poiché tecnicamente e tecnologicamente tale materiale è perfettamente confacente ad una produzione succedanea ad alto livello e di naturale complemento merceologico di quella in porcellana, si è ritenuto non potersi fare a meno di contemplare anche la tutela di una produzione di manufatti artistici in terraglia tramite l’applicazione di un apposito marchio. L’associazione tra produzione di porcellana e produzione di terraglia risale alla Real Fabbrica di Ferdinando IV e fu esemplare tanto che si è dato il caso della fabbrica del castello di Pescolanciano che, concepita ad imitazione della Real Fabbrica, riuscì famosa più che altro per la terraglia17. Al che va aggiunto che talune rilevanti opere, eseguite in porcellana, furono replicate in terraglia, come è il caso del gruppo del “Toro farnese” realizzato nel primo ‘800 nella fabbrica ferdinandea e replicato più tardi, si ignora se nello stesso od in altro opificio18.

Dunque, considerata la esigenza di indicare come la produzione di manufatti in terragliasi svolga nel solco della tradizione al cui centro è quella della porcellana, ma distinguendola filologicamente con un richiamo alla produzione storica qualitativamente più alta, il marchio specifico che la dovrà contrassegnare dovrà essere una “N” richiamate quell’opificio promosso da Ferdinando IV che iniziò e contemporaneamente rese esemplare la produzione napoletana di terraglia o, come si indicava all’epoca di “creta all’uso inglese”. Al testo della denomizzazione starà, poi, la indicazione esplicita del distinto materiale in cui è realizzato il manufatto.

Giova, qui, ricordare che la salvaguardia della tradizione artigianale ceramica viene da un impulso dell’UNESCO: “ La salvaguardia di quest’arte, antica quanto l’uomo, è stata anche affermata in sede UNESCO, che ha raccomandato ai governi nazionali di adottare i necessari provvedimenti atti a tutelare un patrimonio di grande rilievo storico, artistico, tecnico, culturale, economico”19. In tal modo, nel frangente, non è pensabile altra via che quella di uniformarsi al disegno più sostenuto di un organo internazionale ai massimi livelli civili, disegno che è unitamente un disegno culturale ed economico, secondo un concetto che taluni operatori impreparati e marginali stentano a capire nel davvero rozzo e non imprenditoriale convincimento che la cultura soddisfi esigenze astratte ed antieconomiche e che badare agli affari con concretezza porti ad un qualche sacrificio della cultura.

In considerazione di quanto ora esposto era conseguente affidare la codificazione dei tipi di manufatti in porcellana da riconoscersi come artistici e tradizionali, così come la definizione delle regole con cui disciplinare lo svolgimento della tradizione, ad una vera preparazione con l’intervento degli enti preposti, tra l’altro, alla tutela della produzione storica della porcellana di Napoli, delle istituzioni scientifiche preposte e degli esperti delle relative discipline. Così, qui, ci si è avvalsi delle pluriennali ricerche multidisciplinari, sulla tipologia e tecnologia della produzione storica, condotte dall’Istituto “G. Caselli”, in collaborazione con la Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Napoli e la Soprintendenza alle Antichità di Napoli e Caserta20, con le Facoltà di Ingegneria dell’Università di Napoli e dell’Aquila e finanziato dalla Regione Campania esattamente con finalità di riqualificazione del settore della porcellana artistica21.

Mentre si è cercato di captare, anche informalmente, e di tenerne qui conto, quanto si sta muovendo in Italia a livello di “normalizzazione” della terminologia della ceramica. Così, occorre ripetere in questa sede ciò che fu detto nel presentare i risultati di quella ricerca, cioè, che “ solo partendo dallo studio e dalla ricerca scientifica si può seriamente e proficuamente definire il disciplinare di produzione della ceramica artistica e tradizionale di ciascuna zona”22. Dunque, allo stato attuale la Regione Campania è, in uno dei territori più problematici del Paese, paradossalmente, l’unica Amministrazione regionale in Italia ad avere investito risorse per un lavoro scientifico quadriennale di cui avvalersi nella stesura del disciplinare secondo i compiti che le assegna la legge 188.

Ma il fatto di grande rilevanza nazionale, che non deve essere fatto passare sotto silenzio, è che tale è la domanda internazionale di prodotti che ad un qualunque titolo vantino il nome di Capodimonte e contemporaneamente è tanto ampio lo spazio lasciato vuoto, sia in termini di produzione che di tutela, nel territorio di Napoli, che in tutto il mondo hanno avuto modo di fiorire ditte e società che inammissibilmente se ne fregiano. Si è ricordato il caso Taiwan, ma è massimamente significativo il caso per cui capita che talune missive contenenti commissioni di operatori tedeschi, destinate ad una unione di produttori di Vicenza registrati come “di Capodimonte”, vengano recapitate dalle poste italiane, ignare di questo traslocogeografico di Capodimonte nel vicentino, ad una pubblica istituzione operante nel settore ceramico e situata in quella commercialmente magica località di Napoli. In tal modo se è chiaro che il nome di “Capodimonte” è già da solo è di per sé un patrimonio che va tutelato, è ben chiaro che la sua vera tutela altro non può che consistere in una alta riqualificazione del tessuto produttivo del settore a Napoli, quale va riguardato, prima che come un diritto degli operatori cittadini, come un precipuo loro dovere, e quale oramai è sentito da moltissime parti in questa città.

Contemporaneamente, per quel che riguarda il settore ceramico e particolarmente la porcellana, è impressionante la crescita, nel territorio della città, di competenze, studi e abilità, da parte di studiosi e tecnici di ogni tipo – storici dell’arte ceramica, storici della tecnologia, specialisti di archeometria, chimici, progettisti, decoratori, foggiatori, formatori, tornitori, tecnici dei forni, specialisti della conservazione -, e tra questi è tanto alta la domanda di occupazione e di impiego adeguato, che, alla fine, è difficile indirizzare la ricerca delle responsabilità per cui è, sino ad oggi, mancata la possibilità e quindi necessaria fioritura di un settore dell’economia regionale che non è né azzardato né privo di rigore considerare apportatrice di benessere a livelli tali da incidere sul bilancio nazionale.

È, dunque, per questo motivo che il disciplinare per la denominazione di origine controllata per una produzione che, considerate le premesse storiche ed il patrimonio scientifico e tecnico del territorio, dovrebbe essere e, per certi versi, è sia pure in forma larvale e degradata, un vanto ed una ricchezza nazionali, deve essere concepito, presentato ed applicato con la chiara consapevolezza che esso sarà, alla resa dei conti, una sterile esercitazione scrittoria, la coltivazione di un vuoto mito pseudogiurispudenziale, senza una struttura istituzionalizzata che offra ai produttori quei servizi senza i quali i loro prodotti saranno qualitativamente intercambiabili con quelli in resina di Taiwan e da essi surclassati quanto a costi e ricavi. Tale struttura, dovrà servire, inoltre, anche alle istituzioni preposte alla amministrazione del settore per sostenerle con le proprie competenze tecniche nell’espletamento dei loro compiti istituzionali specifici23.

Di fronte a trasformazioni in atto nell’economia mondiale che vanno tutte nella direzione più decisa dell’integrazione e dell’interconnessione e sono di portata tale che è sempre più problematico “definire un concetto di economia nazionale”24; di fronte alla proiezione coatta delle produzioni regionali in un mercato in cui i 320 milioni di cittadini della Comunità Europea non rappresentano che una quota minoritaria della cifra e della domanda dei cittadini di mondi come quelli asiatico ed oceanico, anche per confrontarsi più fortemente con i quali la Comunità Europea si è costituita come tale; di fronte alla constatazione oramai ineludibile che dai soggetti economici forti sul piano mondiale vengono, di fatto, assegnati a realtà come quella dell’Italia Meridionale spazi economici al cui centro sono il turismo e l’artigianato; di fronte a tutto ciò non si può credere che il piccolo imprenditore artigiano, delle oltre 80.000 minuscole imprese campane “caratterizzate da forte natalità e da altrettanto forte mortalità”25, possa presentarsi a simili appuntamenti internazionali senza aver compiuto un adeguato salto di qualità.

Dunque, occorrerà che ci si persuada che la battaglia per la riqualificazione e la promozione della produzione della porcellana e della terraglia a Napoli avrà come suo unico terreno quello del sostanziamento di un disciplinare, correttamente concepito e applicato, con una reale e dispiegata produzione capace di competere con le produzioni concorrenti sul piano della qualità. Tale produzione si potrà realizzare e rendere organica soltanto grazie al supporto di un “Centro per la porcellana e la terraglia”26, il quale fornisca quanto ad essa è indispensabile allo scopo: le ricerche e la progettazione delle linee di produzione; le ricerche per i progetti ed i prototipi; le ricerche sui materiali e sui macchinari; le ricerche sulle legislazioni regionale, nazionale ed europea che intervengono sempre più nella realizzazione del singolo prodotto come sulle scelte imprenditoriali; le ricerche di mercato e sulla ottimizzazione dei costi; le forme di promozione che divengono, in questo settore, sempre più articolate e di taglio colto; le analisi, prove e certificazioni; le manifestazioni di supporto; i corsi di perfezionamento per ogni ordinedi figura tecnica dell’impresa27; le indicazioni sui tecnici, operatori e specialisti reperibili sul mercato del lavoro e le consulenze in generale28. E’ inutile dire quale bisogno abbia il Mezzogiorno d’Italia di una struttura del genere e quali possibilità abbia questa, una volta realizzata, di proiettarsi in quello che è storicamente, politicamente e culturalmente il suo naturale spazio, il Mediterraneo. Per altro, il progetto di un “Centro sperimentale per la porcellana, centro di servizi comuni per i produttori del settore” fu già messo a punto e presentato a tutte le istituzioni competenti del territorio già nel 1988 dall’Istituto “G. Caselli”29. Che ciò si sia verificato sette anni fa, e contemporaneamente alla realizzazione del “Centro” di Faenza, legittima ancor più le aspettative al riguardo di una parte non insignificante degli operatori del settore. Per tale progetto si è ipotizzato anche l’inserimento nei piani regionali con finanziamento CEE, e la sua realizzazione è sembrata ricorrentemente sul punto di avviarsi. Così, l’impegno scritto dell’allora assessore regionale all’Industria ed Artigianato “per coordinare, attraverso gli altri Assessorati, l’iter procedurale affinché lo stesso (il progetto) trovi una maggiore definizione degli Enti preposti all’attuazione per poi passare all’approvazione e realizzazione”30, è stato il coronamento di pluriennali sforzi sin ad oggi tristemente inutili.

Ora, l’occasione vuole che l’approvazione, si può dire unanime, che tale progetto suscitò, allora, presso i vertici delle Amministrazioni Regionale, Provinciale e Comunale, si traduca coerentemente in atti concreti, poiché un “parco” scientifico, tecnologico, di progettazione e ricerche, quale si è qui delineato, è assolutamente indispensabile per creare una sostanza ed un adeguato soggetto per l’applicazione del disciplinare in questione31.

Poiché la fonte delle ricchezze, con cui tutto viene sostenuto in una comunità civile, è la produzione, è un non-senso che dei produttori siano sostenuti e assistiti da appositi apparati di sostegno, barbacani e pali puntellati una economia crollante ed inattiva, sempre contesto ed ospite di elementi fittizi e parassitari. Nel rapporto con le istituzioni e le altre forze civili, quanto veramente occorre a dei veri imprenditori sono servizi assumibili alla stessa stregua di merci e beni primari, ciò che per la grande industria è stato indicato come “know-how”, ovvero “conoscenze”, e che per un settore erede degli episodi produttivi e delle tecniche di maggior cimento e più prestigiose d’Italia e con i quali è un rapporto di continuità mai completamente estinto32, è altrettanto vitale che per l’industria ad alta concentrazione di tecnologia.

In conclusione, il disciplinare, correttamente, può costituire solo l’aspetto normativo di una operazione di grosso respiro produttivo, di ricerca scientifica, di impiego di lavoro altamente qualificato, di promozione e, insomma, di respiro economico dell’ordine che qui si è cercato di rappresentare.

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1 È documentata nel modo più chiaro la preoccupazione politica di Carlo III a Madrid che il figlio riuscisse a far rivivere la fabbrica rompendo, così, la sua esclusiva. Così il suo ex primo ministro e, di fatto, suo emissario alla corte di Ferdinando IV, Bernardo Tanucci, seguendo accuratamente tutti gli sforzi di questi, informa l’anziano ex re di Napoli di ogni passo fatto per realizzare la fabbrica di porcellana, ed anzi, in una lettera a questi del 14 gennaio 1772, lo rassicura che un ex lavorante della fabbrica di Capodimonte, Francesco Chiari, che si era offerto per collaborare alla realizzazione del progetto “non tiene il segreto, benché fosse qui nel servizio della fabbrica della porcellana”. Vedi F. Strazzullo, Le manifatture d’arte di Carlo di Borbone, Napoli 1979, p.149. Dunque la fabbrica di Ferdinando nacque esattamente come ripresa e rinascita della fabbrica di Capodimonte e come tale fu seguita con precise attenzioni da Carlo III in Spagna.

2 “Il primo periodo di produzione, quello di Capodimonte, è certamente, e meritatamente, il più celebre”, è questo il giudizio, non privo di ragione, di A. Carola-Perrotti, Porcellane e terraglie dal tardo-barocco al liberty: Napoli a confronto con l’Europa, in AA. VV., Porcellane e terraglie dal tardo-barocco al liberty, Napoli 1984, p.50.

3 Vedi ivi, stessa p.

4 Vedi scheda di S. Musella Guida, Il salottino di Maria Amalia, in Porcellane di Capodimonte. La Real Fabbrica di Carlo di Borbone 1743 – 1759, a cura della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Napoli, Napoli 1993, pp. 88-93. Al riguardo, non si può ammettere l’abuso di formulazioni estemporanee, suscitate dalla fama del monumento, per cui A. Blunt, Sull’uso e abuso di ‘Barocco’ e ‘Rococo’ in architettura, in A. Blunt, C. De Seta, Architettura e città, Napoli 1978, p.39, in una nota, può assicurare lapidariamente che “ la stanza di porcellana…fu disegnata e fatta da artigiani di Meissen che lavoravano nella fabbrica di Capodimonte”.

5 Ne fà un cenno Musella Guida, op. cit. p. 88. La stessa discute più articolatamente dell’ “impresa” in Precisazioni sul salottino di porcellana di Portici, in “Antologia di Belle Arti”, 5 (1978), pp. 73-76, ipotizzando, senza una vera ragione, due cantieri, uno ‘ industriale’ e l’altro ‘artistico’, dove è chiaro che non si possa considerare quello di Capodimonte né un ‘cantiere’, né l’unica manifattura impiegata nel caso, e che quel manufatto complessivo richieda di essere spiegato con un cantiere a cui fa capo un sistema di opifici e singoli progettisti ed artefici specialisti coadiuvati da generici e manovali di ogni sorta, senza distinzioni fondate su moderni e discutibili criteri estetici. Lo “Spoglio delle scritture appartenenti alla Real Fabbrica della Porcellana di commissione del Marchese Ricci (1771)”, vedi Strazzullo, op. cit., pp. 179-82, mostra doviziosamente l’intervento organato, in un unico cantiere, di “mastri operaii” e capomastridi imprese artigiane, vetrai, piombasti, pipernieri, concorrenti alla sistemazione della Real Fabbrica di Portici, per le cui attrezzature specifiche il modellatore capo Francesco Celebrano compila cinque distinte note di spesa. Situazioni del tutto analoghe sono quasi sempre mostrate dagli atti delle liquidazioni per opere fatte eseguire da signori e membri della casa reale in quegli anni, vedi ivi, pp. 175-8 e passim. Una documentazione ricchissima intorno a simili cantieri, con l’intervento di intagliatori, falegnami, stuccatori, pipernieri, marmorari, “riggiolari”, etc., è nell’eccellente F. De’ Rossi, O. Sartorius, Santa Maria Regina Coeli. Il monastero e la Chiesa nella storia e nell’arte, Napoli 1987, la cui utilizzazione persuade essere il cantiere del “salottino” null’altro che l’aggiornamento ai gusti dell’epoca e allo speciale committente, con gli speciali problemi tecnologici che ne derivano, del complesso cantiere cinquecentesco. La congettura di Musella Guida è ripresa acriticamente da P. Giusti, Il salottino di porcellana di Portici, in Le Porcellane Dei Borbone di Napoli. Capodimonte e Real Fabbrica Ferdinandea 1743 – 1806, a cura di A. Carola-Perrotti. Museo Archeologico Nazionale di Napoli 19 Dicembre 30 Aprile 1987, Napoli 1986, p.48.

6 Nuove notizie sulle sperimentazioni intorno alle lastre di rivestimento per questo “salottino” vedi M.R. Buonagurio, New findings at the royal porcelain manifacture of Capodimonte, in Fourth euroceramics – volume 14 – The cultural ceramics heritage, 3rd European meeting on ancient ceramics. Archeometric and Archeological Studies, edited by B. Fabbri, p.301, fig.8.

7 E’ del tutto inammissibile, come metodo storico, la pretesa, espressa da A. Gonzàles-Palacios, Le arti decorative e l’arredamento alla corte di Napoli: 1734-1805, in Civiltà del ‘700 a Napoli 1734-1799, secondo vol., Napoli 1980, pp. 93-4, di confutare la testimonianza di un tecnico di prim’ordine come Luigi Vanvitelli il quale, in una oramai nota lettera del 17 giugno 1758, attesta di aver visto quel pavimento. È tecnologicamente del tutto errata l’idea tenuta da questo autore che lastre in porcellana non possano essere sottoposte a calpestio, in quanto simili lastre debitamente allettate su di un supporto stabile sono sottoposte, con larghissima prevalenza e non diversamente dalle “riggiole” in terracotta, a sollecitazioni di compressione e non a momenti flettenti o torcenti, così che è nota, oggi, una produzione spagnola di piastrelle in porcellana per pavimenti. Inammissibile, infine, che venga ignorato essere la produzione cinquecentesca, in impasti ceramici assai simili a quelli che saranno impiegati nella Real Fabbrica, di “ pavimenti contraffatti che paiono pietre mischie” , propria di Bernardo Timante Buonaccorsi, più noto come Bernardo Buontalenti, alla corte di Alfonso II signore di Ferrara, secondo la precisa e competente testimonianza di Giorgio Vasari, Le vite dei più eccellenti scultori, pittori e architetti, Roma 1991, p. 1347. Restano sconosciute le circostanze per cui sarebbero contraddittorie le “testimonianze antiche” intorno a questo pavimento e quali sarebbero i pretesi “documenti” atti a suffragare che esso fosse “in lastre di marmo, o scagliola, dipinte “ad uso di porcellana” di cui asserisce la esistenza N. Spinosa, Le porcellane di Capodimonte, Milano 1983, p. 186, accreditando come più “attendibile” l’ “ipotesi” di Gonzales-Palacios.

8 Vedi Giusti, Il salottino, op. cit. , pp. 49-56, la quale vanamente si sforza di sottrarre quell’arredo di interno all’ambito, che gli è connaturato, di versio europea barocca degli apici più alti degli arredi cinesi curata secondo modalità codificate e con ricerche condotte, lungo i percorsi di Matteo Ripa, da orientalisti del tempo su tutti i fronti di acquisizione di notizie sulla Cina, dalle incisioni, alla lingua, alle immagini degli strumenti musicali. Tra questi, i cimbali ed i flauti hsiao costituiscono la punta più alta, che compaia in quell’immaginario di porcellana, della cura filologica degli studi rispettivamente sul mondo centroasiatico e su quello cinese. Per altro, non si può dimenticare che, in Europa, dai tempi di Marco Polo, la porcellana era la sintesi ed il paradigma della Cina e che, dunque, “tutto in porcellana” valeva necessariamente “tutto cinese”.

9 Vedi A. Dolcini, La D.O.C. alla Ceramica italiana. Legge 188 – Criteri di coordinamento ed attuazione, Faenza 1991, p.118.

10 L’Artigianato in Campania, Napoli 1984, p.85: in particolare vedi le analisi di V. Aloia, Artigianato e formazione professionale e di G.A. Marselli, Artigianato e società, pp. 47-8. Entrambi i saggi, come anche quello di F. Tortorelli, L’artigianato nella realtà socio-economica della Campania, ivi, pp. 53-82, presentano un quadro nettamente più incisivo e veritiero di quello anodino e trasfigurato di L’artigiano produttivo nel centro storico di Napoli, a cura della Società Studi Centro Storico Napoli, Roma 1992, che pure tratta di uno degli aspetti più salienti dell’artigianato campano (utile la bibliografia).

11 Vedi Dolcini, op. cit., p.118.

12 Si è già visto, a nota 2, il giudizio di Carola-Perrotti.

13 L’arte della ceramica. Capodimonte, Milano 1972, p.196. Proseguendo, l’autore insiste nel denunciare la “erronea convinzione, tuttora incredibilmente diffusa, che la marca di Capodimonte sia una N coronata”. Per altro, la emblematizzazione delle due fabbriche borboniche con un unico emblema è legittima e necessaria perché, dovendo adottare un unico marchio, è il giglio azzurro, quello dei due marchi di tali fabbriche, che è paradigmatico delle loro produzioni come di quelle che le hanno immediatamente seguite, tanto che queste ultime sono state erroneamente riunite sotto il nome associato a tale marchio. Infatti, nello stesso luogo, Stazzi ricorda come De Eisner Eisenhof facesse rientrare sotto il nome di “porcellane di Capodimonte” anche quelle “di Ferdinando IV e persino quelle più tarde di Foulard-Prad e successori”.

14 Vedi ivi, p. 199, fig. XXXII-XXXVIII; Porcellane di Capodimonte. Op. cit., p. 236. Per una bibliografia aggiornata sull’argomento vedi ivi, pp. 237-39.

15 Vedi G. Donatone, La terraglia napoletana (1782-1860), Napoli 1991, passim, figg. 1-36. Mentre la produzione di terraglie normalmente si tiene a livello di quella contemporanea di porcellane, come ben mostrano tutte le restanti opere ivi studiate ed un congruo numero di manufatti del Museo Artistico Industriale di Napoli, vedi Carola-Perrotti, Porcellane e terraglie, op. cit., figg. 25, 49-53, 54-61. Vedi anche della stessa, La “creta all’uso inglese”, in Le Porcellane dei Borbone, op. cit., pp. 586-7; G. Donatone, Un piatto di terraglia della R. Fabbrica, in “Antologia di Belle Arti”, 5 (1978), pp.72.

16 Continuano ad essere pubblicate nuove importanti opere in terraglia utili addirittura a conoscere meglio la complessiva produzione artistica sculturale napoletana del tempo, vedi G. Donatone, Lo scultore Gennaro Laudato e la terraglia della Real Fabbrica di Napoli, in “ Centro studi per la storia della ceramica meridionale. Quaderno 1991”, pp. 39-43. Sulla terraglia del primo Ottocento della Manifattura Giustiniani vedi dello stesso, Ancora sulla terraglia napoletana, ibidem, pp.47-54. Ancora nel 1880 si produceva un’opera di grandissimo impegno come il grande gruppo con allegoria del mare del Museo Artistico Industriale di Napoli, vedi Caròla- Pernotti, Porcellane e terraglie, op. cit., fig. 79.

17 Dove si ottennero “terraglie candidissime” con materiali locali, vedi L. De Mauri, L’amatore di maioliche e porcellane, Milano 1956, p. 189; F. Battistella, Appunti sulla fabbrica di terraglia “all’uso d’Inghilterra”, maiolica e porcellana del duca Pasquale D’Alessandro e Pescolanciano, in “ Rivista Abruzzese”, a. XLI, 3 (1988), pp. 196-203. Mentre non è ancora accertato che in quella fabbrica si producessero veramente porcellane.

18 Vedi Donatone, La terraglia, op. cit., figg. 35-6. Se ne conosce una replica di fabbrica siciliana. Un altro caso è quello del calamaio in terraglia con la personificazione del Tempo del Museo Civico di Baranello, vedi ivi, fig. 46.

19 Vedi Dolcini, op. cit., p. 118.

20 Tale ricerca ha prodotto gli atti delle “Giornate di studio sulla ceramica europea con la presentazione della ricerca sulla composizione e tecnologia di produzione della porcellana d’epoca di Capodimonte”, Napoli, Parco di Capodimonte, 9-10 dicembre 1993, Napoli 1995. E’ del tutto specifico, in particolare P. Giusti, La porcellana di Capodimonte nel contesto europeo, capp. Definizione del lessico e sua normalizzazione, Identificazione delle forme e confronto con oggetti datati e musealizzati. Individuazione di archetipi o forme perdute nella pratica della manifattura di Carlo di Borbone, pp. 59-74.

21 Ci si è avvalsi, inoltre, delle ricerche specifiche dell’ “ Istituto per lo Studio e la Produzione dei Manufatti Tecnici ed Artistici” sul divenire delle manifatture artistiche in relazione alle tradizioni produttive. Per la recente scoperta, dovuta a tale Istituto, le rocce con cui si preparavano gli impasti della porcellana della Real Fabbrica ed altri nuovi frammenti di scarti di fabbrica della stessa – presentati per la prima volta alla manifestazione RESTAURO. Salone dell’Arte del Restauro e della Conservazione del 1995 a Ferrara – vedi Buonaugurio, New findings at the royal porcelain, op. cit., pp. 293-304.

22 M.R. Buonagurio, Presentazione della manifestazione, in “Giornate di studio”, op.cit., p.11. Lo stesso disciplinare elaborato da questo Istituto in base alla legge 1910 del 3/09/1961, si fondava appunto su questa ricerca secondo la presentazione che se ne faceva negli atti del Convegno sul tema: Il ruolo della produzione ceramica nell’economia della Regione Campania. Prospettive ed adempimenti in relazione alla legge 188/90, a cura dell’Istituto Professionale di Stato per l’Industria e l’Artigianato della Porcellana e della Ceramica, Napoli-Parco di Capodimonte 1990, p.9, dove si evidenziava il ritrovamento delle vecchie cave da cui si estraevano le materie prime per la Real Fabbrica, la definizione dei modelli, forme, tipi, etc. della stessa.

23 Non si può dimenticare che l’articolo 8 della legge 443 del 1985 attribuisce alle regioni le materie attinenti alla formazione imprenditoriale artigiana. Vedi Raccolta unitaria delle leggi regionali in materia di artigianato, a cura del Centro Studi Regionale Campano, Napoli 1989, p. 84.

24 C. Rota, Dalla parte degli artigiani, Napoli 1990, p.34, nel quadro mondiale in cui situare la sua analisi dello stato dell’artigianato campano osserva appunto questo.

25 E’ la esatta raffigurazione che ne fa Rota, op. cit., p.37, aggiungendo alla nota che il “saldo” è positivo e la categoria è in espansione, la pertinente osservazione che il fenomeno è sintomo “di vivacità ma anche di approssimazione e scarsa lungimiranza imprenditoriale”.

26 L’Agenzia Polo Ceramico di Faenza, agenzia di sviluppo e servizi per la ceramica, è una società consortile a capitale di maggioranza pubblico, “creata con lo scopo di favorire il consolidamento, lo sviluppo e l’innovazione… del distretto ceramico faentino”. Essa opera in collegamento con gli Enti e le strutture del comparto ceramico, particolarmente con CNR, ENEA e Università e “ si configura come cerniera tra l’area della ricerca e quella della produzione ed agisce come struttura per la erogazione diretta di servizi, per la valorizzazione del settore ceramico e la formazione professionale”. Comprende quattro sezioni: laboratori (di analisi, tecnologici, per la ceramica artistica); sportello tecnologico ( per servizi di documentazione, informazione e consulenza; banche dati e di immagini); convegnistica e formazione (congressi, convegni, mostre e fiere, formazione di personale, corsi specialistici sulla ceramica artistica, industriale ed avanzata); promozione e trasferimento tecnologico (per iniziative di promozione e commercializzazione, trasferimento di innovazioni per prodotti e processi). E’ più che legittima la convinzione che la tradizione di Capodimonte combaci, con almeno altrettanto diritto, con una struttura del genere. Vedi lo stampato Agenzia Polo Ceramico, Faenza s.d., (ma 1995).

27 Sottolinea come “la formazione vada concepita come parte di intervento complessivo di sviluppo al servizio dell’impresa; un vero e proprio servizio all’impresa”, C. Rota, Istruzione e Formazione professionale in Campania, in Istruzione e formazione Professionale in Campania – Atti del Convegno a cura dell’Ente Morale Mondragone, con il patrocinio della Regione Campania, Napoli, 3 maggio 1991, p. 31.

28 Tortorelli, L’artigianato nella realtà socio-economica, op. cit., p. 56, sottolinea l’esigenza di sostenere la produzione delle aziende artigiane in “ tutti quei momenti organizzativi che precedono e seguono l’esecuzione del ciclo produttivo inteso in senso stretto”, così eludendo proprio il punto centrale che è quello dell’elevazione generale della qualità esattamente dell’ “esecuzione del ciclo produttivo in senso stretto”, cioè della costituzione di un reale soggetto produttivo. Il quale altrimenti è destinato solo a vivere in quella politica assistenzialistica che appunto consiste nell’occuparsi di quanto segue e precede un processo produttivo la cui reale esistenza non è condizione per agire e neanche è appurata. In tal modo ci si occupa di tutto quanto sia il più lontano dal “ ciclo produttivo in senso stretto”, come di quel “Demanio di laboratori artigiani regionali” in quel contesto proposto. Quanto all’idea, oggi regolata severamente dai tempi, che quel sostegno potesse essere fornito dall’ERSVA, già allora era da porsi a confronto con una voce, quella di C. Rota, Dalla parte degli artigiani, op. cit., p.36, che, dai vertici stessi di questo ente, avanzando dubbi sull’essere questo all’altezza dei suoi compiti di sostegno, ne invoca la “rifondazione”, pp. 47-53. Né alla “tattica inconcludente e sprecona” attribuita all’ERSVA nella “Presentazione”, p.7, pare estranea la circostanza che anche in questo libretto, tra i servizi da offrire alle aziende artigiane, non venga mai ipotizzato quello di fornire progetti ed informazioni circa le modalità di svolgimento del processo produttivo.

29 Vedi il fascicolo dallo stesso titolo pubblicato, nello stesso anno, a cura di questo Istituto. L’accenno che ivi si fa, p.1, alla estrema frammentazione dei piccoli produttori coincide pienamente, oltre che con il quadro indicato da Rota, op. cit., p.37, con l’analisi di Marselli, op. cit., p. 48, dove si parla di “estrema frammentazione” e di “polverizzazione”, ed è da considerarsi l’esatta osservazione di uno stringente dato di partenza nella considerazione della opportunità di questo progetto.

30 Vedi Convegno sul tema: Il ruolo della produzione ceramica nell’economia della regione Campania. op. cit., p.13.

31 La stretta connessione tra la Legge 188 ed un centro per la porcellana era già stato sottolineato con decisione nel 1990 nel Convegno sul tema: Il ruolo della produzione ceramica nell’economia della regione Campania. op. cit., dove, p.10, il progetto del “centro” o “polo ceramico” fu addirittura rivendicato come precorritore della Legge 188 ed auspicato in una mozione approvata all’unanimità, laddove partecipavano il Sindaco di Napoli, l’assessore regionale all’Artigianato Commercio e Industria, il vicepresidente dell’ERSVA, il segretario della Commissione Regionale Artigianato, i rappresentanti sindacali del settore a livello regionale e nazionale, i sindaci dei comuni di tradizione ceramica della Campania.

32 E’ di questi anni la morte di uno splendido artefice della porcellana come Mario Borrelli, docente dell’Istituto “Caselli”, che, in tutto, avrebbe potuto essere un formatore della Real Fabbrica di Capodimonte, e che certamente era un continuatore di pratiche magistrali tramandatesi nella località.

Reperti di scavo della Real Fabbrica della porcellana di Capodimonte

Nel corso degli anni Cinquanta, durante i lavori di ristrutturazione dell’antico edificio sede della fabbrica delle porcellane, nel bosco di Capodimonte, furono rinvenuti dall’allora Soprintendenza ai Monumenti in alcuni pozzi di scarico posti nelle immediate vicinanze dell’edificio circa 2.000 frammenti di porcellana, frammentati o di scarto. Sono proprio questi frammenti, sino ad oggi poco o saltuariamente studiati, ad avere offerto lo spunto per un lavoro di ricerca interdisciplinare promosso dall’ Istituto Caselli che, in collaborazione con la Sopraintendenza per i Beni Artistici e Storici di Napoli, ha varato uno studio sistematico volto all’individuazione dei materiali e dei procedimenti che si utilizzavano nell’antica fabbrica carolina per ottenere l’impasto della porcellana.

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Essi costituiscono infatti un potenziale serbatoio, ancora quasi del tutto inesplorato, per lo studio della manifattura di Capodimonte.

Gli oggetti scartati e gettati via perché deformatisi nella cottura, o crepati, o non ben cotti, possono infatti costituire un reperto di prima mano da analizzare per ricostruire i procedimenti tecnici, con cui gli oggetti stessi venivano realizzati, e la materia prima di cui erano composti. In occasione del duecento cinquantesimo anniversario di fondazione della manifattura di porcellane voluta da Carlo di Borbone per sottolineare con il dovuto rilievo l’importanza e l’originalità dello studio promosso dall’Istituto Caselli, la Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Napoli ha voluto prestare ed esporre nell’antico “Cellaio” del Bosco di Capodimonte, recentemente restaurato, alcuni fra i più significativi frammenti che sono stati esaminati nel corso della ricerca.

Si tratta di oggetti biscottati, scartati cioè prima della decorazione pittorica e della invetriatura perché difettosi e dunque gettati nei pozzi di scarico dagli antichi operai della manifattura.

Giunti così attraverso il fortuito ritrovamento degli anni ’50 sino a noi, questi frammenti costituiscono un grande ampliamento delle conoscenze sulla fabbrica delle porcellane di Capodimonte.

Infatti in questa manifattura dove, a voler prestare fede ai documenti pubblicati nel 1878 da Camillo Minieri Riccio, i problemi tecnici legati dapprima alla realizzazione dell’impasto della porcellana, poi alla fattura ed alla cottura degli oggetti furono costanti (tanto che nel gennaio del 1744, ad esempio si realizzarono 3.359 pezzi biscottati e solo 151 verniciati), lo studio e l’analisi sistematica proprio dei pezzi di scarto, che evidentemente dovevano essere numerosi, consente di acquisire molti ulteriori elementi di conoscenza.

Così, mentre lo studio chimico e fisico sui frammenti ha fornito nuovi dati sulle materie prime e sui procedimenti utilizzati per ottenere la porcellana a Capodimonte, anche l’analisi formale degli scarti di fabbrica ha contribuito ad un avanzamento sulle conoscenze della manifattura. Infatti i frammenti recuperati seppur spesso parziali o assai deformati della cottura, se confrontati con le forme di oggetti già noti possono attestare la fortuna e la diffusione di una tipologia, o – dato forse ancora più interessante – individuare forme nuove o sino ad oggi sconosciute così, da ampliare e precisare la mappa degli oggetti che fabbricavano a Capodimonte.

Nella selezione e nella scelta dei pezzi da esporre si è privilegiato così da un lato l’aspetto tecnico, scegliendo dei frammenti deformatisi durante la cottura, dall’altro – soprattutto – proprio quello formale, così da evidenziare la presenza di modelli e di tipologie già noti attraverso esemplari “ben riusciti”, conservati nei musei o nelle collezioni private, o sconosciuti fino ad oggi.

Così, per citare degli esempi, sono presenti numerosi frammenti di tazze o piattini con fiori di pruno in rilievo simili alle tazze con l’interno dorato del Museo Duca di Martina, ad attestare la fortuna di questo modello direttamente ispirato ai prototipi cinesi e accanto ad essi un raro frammento con fiori di matrice occidentale, una tipologia questa piuttosto insolita nella manifattura. Numerosi frammenti di tabacchiere, liscie, canestraie, rigate, “inzegrinate”, “a faccette a segni quadri”, così come sono descritte nei documenti coevi, sottolineano la diffusione ed il successo che questi piccoli oggetti dovettero godere, essendo forse più facilmente commerciabili di altri all’interno della “bottega di vendita”.

D’altro canto alcuni esemplari decorati con fregi, intagli o volute in rilievo ci restituiscono in parte l’attività di un settore della fabbrica (quello della “Camera degli Intagli” sulla quale erano attivi personaggi come Ambrogio di Giorgio o Gaetano Fumo) sino ad oggi noto attraverso pochi sebbene splendidi esemplari realizzati appunto “ad intaglio” come la tazza a lambrequins pubblicata dallo Strazzi, o il pomo di bastone bianco del Museo Duca di Martina.

Dunque la presenza fra gli scarti ritrovati nei pressi della Fabbrica di numerose tazze intagliate identiche a quella appena menzionata o di vasi con fregi e volute dai disegni sino ad ora ignoti testimoniano una attività poco documentata dai pezzi noti. Pressoché assenti fra i frammenti rinvenuti le statuine o gruppi plastici di dimensioni ridotte, pure così largamente rappresentati nella produzione nota della manifattura carolina, sono stati esposti invece dei frammenti di notevole interesse provenienti da gruppi di grandi dimensioni e risalenti a modelli sino ad oggi sconosciuti. Ed infine si propongono gli scarti di alcuni elementi di arredo, cornici o specchiere o modanature, accostabili ai prototipi conservati al museo di Capodimonte o prossime alle modanature del Salottino di Maria Amalia, ad oggetti cioè risalenti agli ultimi anni di attività della fabbrica di Capodimonte.

Ciò fornisce un elemento assai utile per la datazione dei frammenti ritrovati ed oggi in parte esposti, che non potranno essere considerati solo come “prove” risalenti ai primi anni della manifattura, ma piuttosto come scarti di fabbrica gettati nei pozzi di scarico durante l’intero arco di attività della manifattura.

Molti elementi di conoscenza potranno ancora emergere dallo studio degli scarti.

Le porcellane di Sèvres

La produzione

Fondata nel diciottesimo secolo, la Manifattura Nazionale di Sèvres produce tutt’oggi porcellane artistiche, in qualità estremamente limitate, solo 5.000 pezzi all’anno e lavorate con tecniche rigorosamente tradizionali: ancora oggi, tutta la produzione è foggiata e decorata a mano.

I modelli che la manifattura possiede sono numerosissimi e con decorazioni molto svariate: servizi, statue, coppe, scatole, ceneriere.

Essi sono di stile sia tradizionale che moderno. Infatti, la creazione è un elemento costante della produzione già dal 1749, quando Francois Boucher, pittore ufficiale, creò modelli per Sèvres. Oggi i creatori si chiamano: Borek Sipek, Sylvain Debuisson, Wolfang Gafgen, Ettore Sottsass.

Le porcellane di Sèvres sono destinate alla vendita al pubblico e al reassortimento della stoviglieria delle rappresentanze dello Stato Francese.

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Il personale

Le 170 persone che lavorano alla manifattura di Sèvres sono funzionari dello Stato. Fra queste, i 130 membri del personale tecnico sono ingaggiati su concorso, seguito da corsi triennali di formazione, sia teorici, alla scuola della manifattura, sia pratici, nei diversi reparti di produzione dove i giovani svolgeranno il loro lavoro.

Alla scuola della manifattura i corsi sono i seguenti: disegno artistico, tecnologia, disegno tecnico, modellistica, storia dell’arte. Questi corsi sono accompagnati da altre discipline più generali e si svolgono in 16 ore settimanali. Prove scritte, di pratica e orali concludono i corsi.

Per ottenere il certificato finale, l’allievo deve avere i 15/20 di media ai controlli trimestrali, durante l’ultimo anno. Gli esami dell’ultimo anno permettono l’inserimento dell’allievo nella produzione e hanno anche l’equivalenza del baccalaurèat.

Nel segno delle spade blu

La Manifattura Reale di Meissen ebbe il privilegio di far conoscere all’Europa la porcellana a pasta dura. L’esperienza, portata avanti su iniziativa di Augusto il Forte, sin dall’esordio ebbe il carattere di un vero riferimento per la sperimentazione sui materiali condotta dal fisico Ehrenfriend Walther von Tschirnhaus e dall’alchimista Johann Friedrich Bottger, il primo dei quali probabilmente non ebbe il tempo di assistere alla realizzazione della sua impresa condotta a buon fine solo dopo la scoperta dei giacimenti di caolino ad Aue nel 1710, Raschau e di alcuni altri centri della Slesia.

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Tale scoperta diede la possibilità di avviare una produzione di porcellane a pasta dura dalle caratteristiche in tutto simili alle porcellane cinesi. Da questo momento ha inizio la storia vera e propria della produzione delle porcellane di Meissen, sebbene sia stata preceduta da una piccola, ma interessantissima, produzione di manufatti in grès che della porcellana avevano solo la durezza e la sonorità.

Un grès rosso, spesso lucidato con mole per l’incisione del vetro, dalle fogge attinte dall’argenteria barocca, con decorazioni in rilievo miniate a colori vivaci e oro.

La fabbrica dal castello di Wettin, fu trasferita successivamente nella fortezza di Albrecht presso Meissen, e si provvide ad organizzarla impiegando pittori e scultori esperti dello specifico ceramico. A Bottger, morto nel 1719, seguì la direzione Horoldt (1719-1731) e poi ancora Kandler (1731-63). La prima produzione, marcata dal 1720 con le spade incrociate, risentì fortemente delle tipologie e dei decori della porcellana orientale sebbene la creatività delle maestranze estendesse le acquisizioni ad ogni ambito artistico; la tradizione orientaleggiante andò successivamente aggiornandosi al gusto della “chinoiserie” di matrice europea, così come le forme assunsero le linee rococò nella ricchezza delle decorazioni floreali e delle bizzarre modanature.

L’esperienza settecentesca fu però il vero motore dell’impresa perché intensa e vivificata da maestranze, pittori e scultori, di capacità inventive e tecniche ineguagliabili; basterà in questa sede ricordare solo Horoldt e Lowenfinck che portarono la tavolozza dei colori ad un arricchimento notevole e, specie il primo, introdusse l’uso delle incisioni, di ispirazione orientale, adattandole alla miniatura su porcellana.

Kandler, con la collaborazione di Eberlein, condusse la statuaria in porcellana ad assumere caratteristiche proprie riscattandola dal ruolo di scultura a passo ridotto: il famoso Servizio dei Cigni commissionato nel 1737 dal conte Bruhl, soprintendente alla fabbrica in quegli anni, o anche i famosi animali, capre, pappagalli, cicogne, parte del ricco zoo commissionato da Augusto il Forte per il Palazzo Giapponese di Dresda, sono solo una piccola parte delle numerose e qualificanti esperienze della fabbrica che a giusta ragione assunse un ruolo guida nelle costituende manifatture europee nel Settecento. Sono queste le più alte punte della produzione di Meissen, dal 1731 allorché andò indirizzandosi verso la produzione dei servizi da tavola , the e caffé, per allinearsi ai nuovi rituali dell’epoca, alla statuaria in minore, ai corredi di una tavola alla moda e indispensabile addobbo per il boudoir.

Il marchio della porcellana di Capodimonte

La porcellana prodotta dal 1743 al 1759 nella “Real Fabbrica della Porcellana” nel Parco di Capodimonte veniva marchiata col Giglio Borbonico decorato in colore azzurro sottovernice o incusso. Tale marchio non fu adottato per la produzione di Ferdinando IV di Borbone, dal 1771 al 1835, nella sua fabbrica di Portici né successivamente. Infatti, la produzione ferdinandea, distinta nel tempo e nel luogo di origine da quella di Capodimonte, fu contraddistinta fino al 1787 dalla marca “FRM” sormontata da una corona, poi da una “N” incoronata, marchio ceduto, forse, ai vari produttori.

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Del marchio di Capodimonte si trova traccia, ufficialmente, solo nel 1961, quando il Presidente della Repubblica, nel d.p.r 1910, al 2° comma del 2° art., autorizza l’Istituto G. Caselli a “depositare nei modi di legge e ad usare per i suoi prodotti un marchio di fabbrica che, richiamando quello delle antiche fabbriche di Capodimonte, sottolinei la continuità storica della tradizione”.

Il 20 marzo del 1987 l’Istituto G. Caselli ha provveduto al brevetto del Giglio Borbonico, nonché della dicitura “Giovanni Caselli – Capodimonte” da usare anche disgiuntamente.

La porcellana nella produzione: generalità

Dal punto di vista chimico la porcellana è costituita, essenzialmente, da silice, allumina e modesta quantità di ossidi di metalli alcalino-ferrosi. Tale composizione le deriva dai suoi tre principali e tradizionali costituenti: caolino (silicato idrato di alluminio); quarzo; feldspato (ortoclasio: silicato di alluminio e potassio). Ognuno di tali costituenti esplica una funzione fondamentale ai fini di quelle che saranno le caratteristiche chimiche, fisiche ed estetiche del manufatto finale. Occorre porre in rilievo il fatto che, per l’ottenimento di un manufatto di qualità, è indispensabile rispettare rigorosamente una logica sequenza di fasi operative che verranno qui di seguito elencate e per le quali vale la promessa, di carattere generale, che qualunque delle operazioni indicate poggia il suo motivo d’essere su consolidate cognizioni scientifiche, che se occorre sottolineare che la porcellana è ancora, a tutt’oggi, un interessante campo di ricerca suscettibile di ulteriori nuove sperimentazioni e traguardi.

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Per quanto concerne la preparazione degli impasti è importante ricordare come questa sia la fase fondamentale che ha il compito di omogeneizzare i componenti sopra citati.

Gli impasti vengono preparati nei laboratori che portano il nome di mulini, nel ricordo del tempo in cui le manifatture si stabilivano vicino ai fiumi che fornivano loro la forza motrice e l’acqua.

L’argilla indispensabile alla porcellana è il caolino che costituisce il 45% circa dell’impasto.

Il fascino che la porcellana esercita nei suoi amatori sta nella sua traslucentezza. Questa traslucentezza è dovuta in gran parte al quarzo ma anche ad un fondente, il “feldspato” che, in cottura, reagisce con il caolino ed il quarzo per formare la fase vetrosa. Quarzo, caolino e feldspato, frammentati grossolanamente in un primo momento, vengono poi lavorati da pesanti moli verticali di granito. I frammenti ottenuti hanno ciascuno la dimensione di un chicco di riso. L’insieme dei componenti della pasta viene allora pesato in frazioni di 500 kg e introdotto, con una quantità equivalente d’acqua in frantoi cilindrici contenenti ciottoli di mare.

Quando l’apparecchio è messo in rotazione, la caduta dei sassi gli uni sugli altri provoca il frantumarsi dei materiali, la cui sottigliezza dipende dalla durata dell’operazione. Questa è di circa 15/20 ore. Questo tipo di frantumazione ha rimpiazzato all’inizio del secolo gli antichi mulini a blocchi il cui principio si basava sullo sfregamento di moli di pietra trascinate su una pista anch’essa di pietra. Al termine della frantumazione il frantoio è svuotato in un serbatoio nel quale il composto chiamato “barbottina” è agitato lentamente in modo da evitare la sedimentazione dei composti più pesanti. Da qui esso è aspirato e setacciato su di un telo metallico la cui apertura di maglia è di 60 micron. Al di sopra del setaccio si trova una serie di calamite, sulle quali circola la barbottina.

Esse hanno il ruolo di fissare tutte le particelle ferrose che vi si trovano. La più piccola particella di ferro provoca immancabilmente alla cottura una macchia oscura dal riflesso metallico. Queste macchie esistono da quando esiste la porcellana, e bisogna rassegnarsi a scartare almeno il 3% della produzione per questi difetti che compaiono solamente dopo la cottura. La barbottina così frantumata, setacciata e purificata, viene indotta sotto pressione negli alveoli della filtro-pressa. Queste cellule, che possono contenere dai 5 ai 15 grammi di pasta secondo le dimensioni, sono rivestite da teli filtranti. Quando l’acqua, carica di pasta di porcellana, è compressa contro la tela, le materie dure si accumulano nella cellula e l’acqua scorre. Più lo strato di pasta è spesso, più la pressione deve essere alta in modo da fare scorrere l’acqua. Così la pressione può essere alzata fino a 10 o 15 kg/cm2 in modo che la pasta raggiunga la voluta consistenza. La filtro-pressa viene aperta; le forme di pasta contenenti ancora circa il 30% di acqua vengono impastate da una macchina in modo da renderle più omogenee. Dopo questa operazione le forme di pasta vengono riposte in una cantina. Basta in seguito impastare per un po’ la pasta e passarla nella “degasatrice” – macchina che estrae le bolle d’aria – affinché la pasta sia pronta per essere utilizzata.

Real Fabbrica Ferdinandea

Nel 1771 il nuovo re di Napoli, Ferdinando IV, decise di continuare la tradizione paterna e di far sorgere una nuova fabbrica prima nel Parco della Reggia di Portici e poi nei giardini del Palazzo Reale. Furono eretti gli stabilimenti e assunti gli operai, alcuni dei quali avevano lavorato in precedenza per il Capodimonte.

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Gli inizi non furono del tutto promettenti; la memoria della precedente manifattura era troppo viva nel ricordo del re e degli stessi artefici, e i primi modelli si ispirarono a un rococò ormai decisamente in ritardo sui tempi. La marca “FRM” sormontata da una corona, significa “Fabbrica Reale Ferdinandea” e fu usata fino a verso il 1787; successivamente fu adottata la “N” incoronata, in blu sotto coperta o impressa. Quando non si ispira a Capodimonte, questa prima produzione si mostra troppo legata ai modelli stranieri, tedeschi e francesi, che ripete con imprecisione ed era diffusamente lamentata la mancanza di originalità degli artefici.

Una svolta si ebbe nel 1780 con la direzione di Domenico Venuti; egli incoraggiò decisamente l’adozione dello stile neoclassico , scelta congeniale a una corte che aveva promosso e continuava a finanziare gli scavi di Pompei ed Ercolano. Il materiale che ne proveniva e gli innumerevoli disegni e incisioni eseguiti sul luogo degli scavi e largamente diffusi, contribuirono infatti al cambiamento di stile a livello europeo. La manifattura conquistò così una sua originalità interpretando in maniera raffinata il vasellame classico. I due servizi più rappresentativi furono chiamati “Ercolanese” e “Etrusco”.

Ercolanese”, commissionato nel 1781 per farne dono al padre del re, Carlo di Spagna, si ispirava ai reperti di Ercolano, i cui motivi erano riprodotti al centro dei piatti e anche bisquit; il centrotavola rappresentava Carlo in atto di incoraggiare il figlio a proseguire gli scavi.

L’Etrusco”, di 282 pezzi, fu invece donato a Giorgio III d’Inghilterra ed una parte si trova ancora nel castello di Windsor; il servizio ricalcava nelle forme e nelle decorazioni, il vasellame Greco e Italiota a figure rosse e nere. Altri servizi recano motivi arabescati a rilievo sulle teste, talora inframmezzati a cammei, paesaggi, costumi della regione.

Nel settore plastico furono prodotti gruppi con scene della vita di corte , in cui spesso compariva il re in persona, ed altri assai complessi di carattere mitologico, per lo più in biscuit ( la “Caduta dei Giganti”, il “ Laocoonte”, il “Ratto d’Europa”, “Pigmalione”, “Le Tre Grazie” di Canova). Più famose sono le “Panchine”, gruppi borghesi, famigliole con bambino o innamorati, seduti appunto su una panchina in vari atteggiamenti; questi gruppi rappresentano la nuova borghesia napoletana, ricca e ben vestita, e sono in genere vivacemente colorati. Meno attraenti quelli bianchi o in biscuit; interessanti anche i busti, su alta base rotonda o sagomata, le figurette di dame vestite in stile impero, o di Napoleone.

L’ascesa di Napoleone determinò il crollo della fabbrica. Nel 1807 Giuseppe Bonaparte, divenuto re di Napoli, la vendette ad una società francese. Nel 1815, quando Ferdinando tornò sul trono, la manifattura continuò una produzione di scarso interesse, fino alla chiusura definitiva nel 1835. I modelli furono acquistati dalla Ginori di Doccia.

La porcellana di Capodimonte

La manifattura di Capodimonte sorse per volontà di Carlo di Borbone re di Napoli, nel clima di rinnovamento culturale e artistico che percorse la città ad opera sua e del primo ministro Marchese di Montealegre. L’arrivo a Napoli delle famose collezioni dei Farnese esercitò un notevole impulso: nuovi opifici furono creati per la fabbricazione di arazzi e pietre dure, poi, nel 1740, nel giardino del Palazzo Reale, iniziarono gli esperimenti per ottenere la porcellana.

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La giovane sposa di Carlo di Borbone, Maria Amalia di Sassonia, era nipote di Augusto II il Forte, e aveva portato con se alcuni servizi di Meissen, contribuendo così ad orientare i gusti del re. L’arcanista Livio Vittorio Schepers e il figlio Gaetano riuscirono ad ottenere la porcellana, servendosi di terre locali, in particolare calabre. Alla decorazione fu preposto Giovanni Caselli, miniaturista di corte; vi contribuì anche Giuseppe della Torre, mentre il modellatore fu il fiorentino Giuseppe Gricci. Il 15 marzo 1743 il re diede incarico all’architetto Ferdinando Sanfelice, ingegnere di corte, di progettare la fabbrica da sistemarsi nel Parco di Capodimonte. Il Sanfelice, costruttore della chiesa della Nunziatella e di altri importanti edifici civili, fu in grado di risolvere non pochi problemi tecnici per adattare a Manifattura un casamento già esistente nel Parco di Capodimonte e abitato dal Guardiamaggiore. L’opera fu portata a termine con eccezionale rapidità nel giugno dello stesso anno, 1743.

Superate le difficoltà iniziali, malgrado non fosse stato possibile far venire da Doccia l’Anreister, come si era tentato, e altro personale da Vienna, si ottennero risultati straordinari: la pasta era bianchissima e translucida, rivestita da una coperta brillante e compatta; Caselli e gli altri decoratori ne traevano eccezionali effetti cromatici . alla morte del Caselli, avvenuta nel 1752, subentrò come capo del reparto di decorazione il tedesco Johann Sigismund Fischer, e successivamente Christian Adler e Luigi Restile. Furono istituite vendite per colmare il passivo che la fabbrica costituiva per il bilancio della Corte, ma anche così le spese rimasero sempre enormi rispetto alle entrate, pur costituendo la produzione di porcellana un fattore di grande prestigio.

Tuttavia il re era così legato alla manifattura da decidere di trasferirla in Spagna quando, nel 1759, ne ereditò la corona dal fratello Ferdinando; tutto ciò che fu possibile trasportare (artefici, impasti, attrezzature) fu imbarcato e contribuì al risorgere della manifattura al Buen Retiro, presso Madrid.

La produzione spagnola, specie nel primo periodo, è quasi indistinguibile da quella italiana, poiché utilizza gli stessi artefici e, inizialmente, lo stesso impasto portato dall’Italia. I forni e i laboratori furono smantellati, gli scarti di fornace seppelliti. Il marchio di Capodimonte, e inizialmente anche del Buen Retiro, consisteva nel giglio borbonico, bleu sotto coperta o incusso. La porcellana di Meissen costituì il primo modello per Capodimonte; è facile riscontrarlo nel ripetersi delle caratteristiche forme di teiere e caffettiere, nella sagomatura di anse e beccucci, in alcuni elementi decorativi molto simili, come i Laub und Bandelwerk e le cineserie in oro su fondo bianco. Furono prodotti anche i grandi vasi da caminetto panciuti col coperchio a cupoletta, di derivazione cinese filtrata attraverso modelli di Meissen. Oltre alle porcellane sassoni, fornirono spunti alla decorazione le stampe francesi, di Watteau, Boucher, Oudry; si diffusero così le consuete scene rococò con galanterie, giochi di bimbi, ma anche marine, paesaggi, nature morte. Non mancarono riproduzioni da pittori italiani contemporanei e del passato, particolarmente da Annibale Carracci, che aveva decorato la galleria del Palazzo Farnese a Roma.

La porcellana nella storia: dalla Cina all’Europa

Delicata, preziosa e sonora al tocco, fine e di un biancore translucido, la porcellana ha sempre incuriosito e affascinato gli uomini.

Dalla Cina, la sua terra d’origine, arrivò in Europa diventando il mezzo d’espressione di un’arte sofisticata: costituendo un vero fenomeno sociale.

L’etimologia della parola porcellana è molto controversa. L’opinione più diffusa ne attribuisce l’origine alla parola “porcellana” che indica una conchiglia translucida e madreperlata, abbastanza comune nei mari caldi. Il primo testo europeo conosciuto che usa la parola “porcellana” è il giornale di bordo di Marco Polo che, nel 1295, dopo un soggiorno di 24 anni in Asia, aveva portato in Italia dei campioni di porcellana cinese. Egli chiama “porcellana” sia la terracotta cinese che le conchiglie che servivano come monete di scambio in alcune zone della Cina.

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In Cina abbonda il caolino, materiale base della porcellana. La parola caolino (gaolin tu) deriva da Gaoling (in cinese: alta cima), collina con importanti giacimenti di questa argilla, al nord di Jingdezhen.

Jingdezhen (antica King-to-tchen), nello Jiangxi, era già dal 1369 il centro della produzione ceramica imperiale. Fin dal secolo XVI, intorno a questa città, i cinesi organizzarono una produzione destinata all’esportazione.

L’altro materiale usato era una roccia pegmatica molto diffusa nel sud della Cina, chiamata dai cinesi “pétuntsé” (pietra di porcellana), i cui costituenti maggiori erano quarzo e sericite. Contrariamente a quanto riportato da molti in Occidente, il feldspato, come pure il caolino, vi erano presenti solo in piccole percentuali. La sericite, un’idromuscovite potassica, aveva proprietà plastiche come il caolino e fondenti come il feldspato.

Già durante le dinastie Shang e Zou (1600 – 220 a.C.), tali materiali venivano adoperati, separatamente, per comporre impasti ceramici che, una volta foggiati, venivano cotti alla temperatura (1000 – 1200° C) consentita dai forni dell’epoca.

I prodotti ceramici ottenuti dagli impasti più refrattari di caolino erano bianchi ma molto porosi (terraglie); mentre quelli ottenuti dal “pétuntsé”, più fusibile, possedevano un corpo denso e, parzialmente, translucido, tanto da essere considerati dagli studiosi delle “proto-porcellane”. Il loro colore era grigio-verde o bruno per l’eccessiva presenza di ossidi di ferro e di titanio.

Con la costruzione di forni capaci di raggiungere una temperatura di 1250 – 1350° C, durante la dinastia Han (25 – 250 d.C ), si riuscì a produrre una vera porcellana, ma il suo colore restava grigio-verde o giallo.

La produzione delle prime porcellane bianche avvenne durante le dinastie Qi e Sui (556 – 618 d.C.) nel nord della Cina, dove all’epoca dei Tang e dei Sang (618 – 1279 d.C.), impiegando come materiale di base caolino misto a feldspato e/o a un minerale calcico-magnesiaco, si riusciva a mettere in opera porcellana candida come la neve. Porcellane bianche furono prodotte in questo periodo anche in altre regioni; ma soprattutto nel sud prevaleva la produzione di porcellane di alta qualità con coperta verde, data la difficoltà di ottenere “pétuntsé” esente da ferro. Intanto erano stati compiuti grandi progressi nella preparazione e nella applicazione di coperte e di colori. Un passo decisivo verso l’ottimazione e lo sviluppo della produzione della porcellana fu compiuto durante la dinastia Yan (1279 – 1368 d.C.), allorché a Jingdezhen, l’impasto fu preparato mescolando caolino e “pétuntsé”.

Lo scheletro di cristalli aghiformi di mullite che si formavano dal caolino (le ossa) durante le ultime fasi della cottura sostenendo la fase vetrosa formatasi dal “pétuntsé” (la carne), fece ridurre drasticamente le perdite che si avevano cocendo impasti senza o con scarsa quantità di caolino. L’aggiunta di caolino, più facilmente ottenibile, esente da ferro e la cottura in atmosfera riducente, portarono inoltre, alla produzione di porcellane dalla pasta compatta e perfettamente bianca.

Sotto le dinastie successive la porcellana si perfezionò e diventò l’espressione di un’arte ufficiale e privilegiata, molto apprezzata dall’imperatore e dall’élite del paese.

Il commercio introdusse la porcellana cinese in Europa: veniva venduta correntemente sulle coste del Mediterraneo fin dal XII secolo. Circondata dal mistero della fabbricazione essa fu molto apprezzata nelle corti europee dove si diffuse nel XIV secolo, spesso ornata di bronzi o di oreficerie. Questo alone di mistero proveniva soprattutto dal fatto che i lavoratori di maiolica europei erano incapaci di ottenere il biancore e la translucidità che la caratterizzavano. Gli scienziati europei, appassionati di alchimia, erano affascinati da questo fenomeno a tal punto che si arrivò ad attribuire alla porcellana qualità magiche: “… i turchi bevono l’acqua in una specie di vaso…perché si crede che un cambiamento della sua trasparenza indicherebbe la presenza del veleno”, scrive nel 1600 Simon Simonius, primo medico della corte di Boemia.

La produzione di porcellana cinese conosciuta dagli europei può essere così classificata:

  1. il genere “blu e bianco”, il più diffuso in Europa, già nell’epoca Yuan (1279 – 1398), è molto famoso nell’epoca Ming (1368 – 1644). La sua caratteristica è l’impiego di un blu cobalto, colore probabilmente importato dall’Iran, posto sulla porcellana prima della “coperta” (vernice trasparente). Alla fine dell’epoca Ming, la produzione “blue bianco” fu soprattutto orientata verso l’esportazione;

  2. il genere “rosa”, (terminologia di A. Jacquemart), apparso sotto il regno di Yongzheng (1723 – 1735), fu caratterizzato dall’impiego di uno smalto rosa porpora derivato dal cloruro d’oro.

Nel campo delle “coperte” bisogna notare la produzione molto raffinata dei “céladons”, verde pallido, di origine Tang (620 – 900) che ebbe un brillante periodo sotto i Qing. All’epoca di Kangxi (1622 – 1722) risalgono delle “coperte” a “gran fuoco” come il “sangue di bue” che gli europei hanno sempre cercato di imitare. I “bianchi di Cina”, vernici incolore applicate su statuette non colorate, costituirono una produzione importante di Jingdezhen. I rapporti con l’Europa si intensificarono a partire dal XVI secolo, con l’arrivo dei mercanti portoghesi e delle missioni gesuite. I portoghesi commercializzarono i prodotti delle Indie orientali in Europa: fu di moda ordinare in Cina dei servizi o altri pezzi di cui si fornivano i modelli decorativi. Nel XVII secolo l’importanza commerciale della porcellana che veniva dall’estremo Oriente era notevole. Ecco alcuni esempi: nel 1664, 11 bastimenti olandesi provenienti dalle Indie orientali portarono 44.943 pezzi di porcellana dal Giappone, secondo il “Rapporto della Compagnia delle Indie Orientali riguardo allo stato degli affari nelle Indie”. Il Mercuri Galant di settembre del 1700 parla di una vendita a Nantes, per la Compagnia delle Indie, del carico dell’Amphytrite che comporta fra l’altro “167 casse di porcellana”. La ceramica, conosciuta in Giappone fin dal XIII secolo, si era affermata nel secolo XVI. La prima porcellana giapponese fu realizzata nel secondo anno dell’era Genna (1616). Fu opera di un ceramista coreano chiamato Ri Sampei, che la fabbricò vicino ad Arita (il caolino era stato scoperto nella parte alta del fiume Arita).

Il desiderio di porre fine ad una costosa importazione straniera spinse gli Stati e le Signorie locali d’Europa a promuovere i tentativi di scoprire o di procurarsi il caolino indispensabile per la fabbricazione della vera porcellana (porcellana dura), o di produrre una pasta artificiale senza caolino (porcellana tenera) ma comunque simile a quella cinese.