Il marchio della porcellana di Capodimonte

La porcellana prodotta dal 1743 al 1759 nella “Real Fabbrica della Porcellana” nel Parco di Capodimonte veniva marchiata col Giglio Borbonico decorato in colore azzurro sottovernice o incusso. Tale marchio non fu adottato per la produzione di Ferdinando IV di Borbone, dal 1771 al 1835, nella sua fabbrica di Portici né successivamente. Infatti, la produzione ferdinandea, distinta nel tempo e nel luogo di origine da quella di Capodimonte, fu contraddistinta fino al 1787 dalla marca “FRM” sormontata da una corona, poi da una “N” incoronata, marchio ceduto, forse, ai vari produttori.

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Del marchio di Capodimonte si trova traccia, ufficialmente, solo nel 1961, quando il Presidente della Repubblica, nel d.p.r 1910, al 2° comma del 2° art., autorizza l’Istituto G. Caselli a “depositare nei modi di legge e ad usare per i suoi prodotti un marchio di fabbrica che, richiamando quello delle antiche fabbriche di Capodimonte, sottolinei la continuità storica della tradizione”.

Il 20 marzo del 1987 l’Istituto G. Caselli ha provveduto al brevetto del Giglio Borbonico, nonché della dicitura “Giovanni Caselli – Capodimonte” da usare anche disgiuntamente.

La porcellana nella produzione: generalità

Dal punto di vista chimico la porcellana è costituita, essenzialmente, da silice, allumina e modesta quantità di ossidi di metalli alcalino-ferrosi. Tale composizione le deriva dai suoi tre principali e tradizionali costituenti: caolino (silicato idrato di alluminio); quarzo; feldspato (ortoclasio: silicato di alluminio e potassio). Ognuno di tali costituenti esplica una funzione fondamentale ai fini di quelle che saranno le caratteristiche chimiche, fisiche ed estetiche del manufatto finale. Occorre porre in rilievo il fatto che, per l’ottenimento di un manufatto di qualità, è indispensabile rispettare rigorosamente una logica sequenza di fasi operative che verranno qui di seguito elencate e per le quali vale la promessa, di carattere generale, che qualunque delle operazioni indicate poggia il suo motivo d’essere su consolidate cognizioni scientifiche, che se occorre sottolineare che la porcellana è ancora, a tutt’oggi, un interessante campo di ricerca suscettibile di ulteriori nuove sperimentazioni e traguardi.

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Per quanto concerne la preparazione degli impasti è importante ricordare come questa sia la fase fondamentale che ha il compito di omogeneizzare i componenti sopra citati.

Gli impasti vengono preparati nei laboratori che portano il nome di mulini, nel ricordo del tempo in cui le manifatture si stabilivano vicino ai fiumi che fornivano loro la forza motrice e l’acqua.

L’argilla indispensabile alla porcellana è il caolino che costituisce il 45% circa dell’impasto.

Il fascino che la porcellana esercita nei suoi amatori sta nella sua traslucentezza. Questa traslucentezza è dovuta in gran parte al quarzo ma anche ad un fondente, il “feldspato” che, in cottura, reagisce con il caolino ed il quarzo per formare la fase vetrosa. Quarzo, caolino e feldspato, frammentati grossolanamente in un primo momento, vengono poi lavorati da pesanti moli verticali di granito. I frammenti ottenuti hanno ciascuno la dimensione di un chicco di riso. L’insieme dei componenti della pasta viene allora pesato in frazioni di 500 kg e introdotto, con una quantità equivalente d’acqua in frantoi cilindrici contenenti ciottoli di mare.

Quando l’apparecchio è messo in rotazione, la caduta dei sassi gli uni sugli altri provoca il frantumarsi dei materiali, la cui sottigliezza dipende dalla durata dell’operazione. Questa è di circa 15/20 ore. Questo tipo di frantumazione ha rimpiazzato all’inizio del secolo gli antichi mulini a blocchi il cui principio si basava sullo sfregamento di moli di pietra trascinate su una pista anch’essa di pietra. Al termine della frantumazione il frantoio è svuotato in un serbatoio nel quale il composto chiamato “barbottina” è agitato lentamente in modo da evitare la sedimentazione dei composti più pesanti. Da qui esso è aspirato e setacciato su di un telo metallico la cui apertura di maglia è di 60 micron. Al di sopra del setaccio si trova una serie di calamite, sulle quali circola la barbottina.

Esse hanno il ruolo di fissare tutte le particelle ferrose che vi si trovano. La più piccola particella di ferro provoca immancabilmente alla cottura una macchia oscura dal riflesso metallico. Queste macchie esistono da quando esiste la porcellana, e bisogna rassegnarsi a scartare almeno il 3% della produzione per questi difetti che compaiono solamente dopo la cottura. La barbottina così frantumata, setacciata e purificata, viene indotta sotto pressione negli alveoli della filtro-pressa. Queste cellule, che possono contenere dai 5 ai 15 grammi di pasta secondo le dimensioni, sono rivestite da teli filtranti. Quando l’acqua, carica di pasta di porcellana, è compressa contro la tela, le materie dure si accumulano nella cellula e l’acqua scorre. Più lo strato di pasta è spesso, più la pressione deve essere alta in modo da fare scorrere l’acqua. Così la pressione può essere alzata fino a 10 o 15 kg/cm2 in modo che la pasta raggiunga la voluta consistenza. La filtro-pressa viene aperta; le forme di pasta contenenti ancora circa il 30% di acqua vengono impastate da una macchina in modo da renderle più omogenee. Dopo questa operazione le forme di pasta vengono riposte in una cantina. Basta in seguito impastare per un po’ la pasta e passarla nella “degasatrice” – macchina che estrae le bolle d’aria – affinché la pasta sia pronta per essere utilizzata.

Real Fabbrica Ferdinandea

Nel 1771 il nuovo re di Napoli, Ferdinando IV, decise di continuare la tradizione paterna e di far sorgere una nuova fabbrica prima nel Parco della Reggia di Portici e poi nei giardini del Palazzo Reale. Furono eretti gli stabilimenti e assunti gli operai, alcuni dei quali avevano lavorato in precedenza per il Capodimonte.

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Gli inizi non furono del tutto promettenti; la memoria della precedente manifattura era troppo viva nel ricordo del re e degli stessi artefici, e i primi modelli si ispirarono a un rococò ormai decisamente in ritardo sui tempi. La marca “FRM” sormontata da una corona, significa “Fabbrica Reale Ferdinandea” e fu usata fino a verso il 1787; successivamente fu adottata la “N” incoronata, in blu sotto coperta o impressa. Quando non si ispira a Capodimonte, questa prima produzione si mostra troppo legata ai modelli stranieri, tedeschi e francesi, che ripete con imprecisione ed era diffusamente lamentata la mancanza di originalità degli artefici.

Una svolta si ebbe nel 1780 con la direzione di Domenico Venuti; egli incoraggiò decisamente l’adozione dello stile neoclassico , scelta congeniale a una corte che aveva promosso e continuava a finanziare gli scavi di Pompei ed Ercolano. Il materiale che ne proveniva e gli innumerevoli disegni e incisioni eseguiti sul luogo degli scavi e largamente diffusi, contribuirono infatti al cambiamento di stile a livello europeo. La manifattura conquistò così una sua originalità interpretando in maniera raffinata il vasellame classico. I due servizi più rappresentativi furono chiamati “Ercolanese” e “Etrusco”.

Ercolanese”, commissionato nel 1781 per farne dono al padre del re, Carlo di Spagna, si ispirava ai reperti di Ercolano, i cui motivi erano riprodotti al centro dei piatti e anche bisquit; il centrotavola rappresentava Carlo in atto di incoraggiare il figlio a proseguire gli scavi.

L’Etrusco”, di 282 pezzi, fu invece donato a Giorgio III d’Inghilterra ed una parte si trova ancora nel castello di Windsor; il servizio ricalcava nelle forme e nelle decorazioni, il vasellame Greco e Italiota a figure rosse e nere. Altri servizi recano motivi arabescati a rilievo sulle teste, talora inframmezzati a cammei, paesaggi, costumi della regione.

Nel settore plastico furono prodotti gruppi con scene della vita di corte , in cui spesso compariva il re in persona, ed altri assai complessi di carattere mitologico, per lo più in biscuit ( la “Caduta dei Giganti”, il “ Laocoonte”, il “Ratto d’Europa”, “Pigmalione”, “Le Tre Grazie” di Canova). Più famose sono le “Panchine”, gruppi borghesi, famigliole con bambino o innamorati, seduti appunto su una panchina in vari atteggiamenti; questi gruppi rappresentano la nuova borghesia napoletana, ricca e ben vestita, e sono in genere vivacemente colorati. Meno attraenti quelli bianchi o in biscuit; interessanti anche i busti, su alta base rotonda o sagomata, le figurette di dame vestite in stile impero, o di Napoleone.

L’ascesa di Napoleone determinò il crollo della fabbrica. Nel 1807 Giuseppe Bonaparte, divenuto re di Napoli, la vendette ad una società francese. Nel 1815, quando Ferdinando tornò sul trono, la manifattura continuò una produzione di scarso interesse, fino alla chiusura definitiva nel 1835. I modelli furono acquistati dalla Ginori di Doccia.

La porcellana di Capodimonte

La manifattura di Capodimonte sorse per volontà di Carlo di Borbone re di Napoli, nel clima di rinnovamento culturale e artistico che percorse la città ad opera sua e del primo ministro Marchese di Montealegre. L’arrivo a Napoli delle famose collezioni dei Farnese esercitò un notevole impulso: nuovi opifici furono creati per la fabbricazione di arazzi e pietre dure, poi, nel 1740, nel giardino del Palazzo Reale, iniziarono gli esperimenti per ottenere la porcellana.

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La giovane sposa di Carlo di Borbone, Maria Amalia di Sassonia, era nipote di Augusto II il Forte, e aveva portato con se alcuni servizi di Meissen, contribuendo così ad orientare i gusti del re. L’arcanista Livio Vittorio Schepers e il figlio Gaetano riuscirono ad ottenere la porcellana, servendosi di terre locali, in particolare calabre. Alla decorazione fu preposto Giovanni Caselli, miniaturista di corte; vi contribuì anche Giuseppe della Torre, mentre il modellatore fu il fiorentino Giuseppe Gricci. Il 15 marzo 1743 il re diede incarico all’architetto Ferdinando Sanfelice, ingegnere di corte, di progettare la fabbrica da sistemarsi nel Parco di Capodimonte. Il Sanfelice, costruttore della chiesa della Nunziatella e di altri importanti edifici civili, fu in grado di risolvere non pochi problemi tecnici per adattare a Manifattura un casamento già esistente nel Parco di Capodimonte e abitato dal Guardiamaggiore. L’opera fu portata a termine con eccezionale rapidità nel giugno dello stesso anno, 1743.

Superate le difficoltà iniziali, malgrado non fosse stato possibile far venire da Doccia l’Anreister, come si era tentato, e altro personale da Vienna, si ottennero risultati straordinari: la pasta era bianchissima e translucida, rivestita da una coperta brillante e compatta; Caselli e gli altri decoratori ne traevano eccezionali effetti cromatici . alla morte del Caselli, avvenuta nel 1752, subentrò come capo del reparto di decorazione il tedesco Johann Sigismund Fischer, e successivamente Christian Adler e Luigi Restile. Furono istituite vendite per colmare il passivo che la fabbrica costituiva per il bilancio della Corte, ma anche così le spese rimasero sempre enormi rispetto alle entrate, pur costituendo la produzione di porcellana un fattore di grande prestigio.

Tuttavia il re era così legato alla manifattura da decidere di trasferirla in Spagna quando, nel 1759, ne ereditò la corona dal fratello Ferdinando; tutto ciò che fu possibile trasportare (artefici, impasti, attrezzature) fu imbarcato e contribuì al risorgere della manifattura al Buen Retiro, presso Madrid.

La produzione spagnola, specie nel primo periodo, è quasi indistinguibile da quella italiana, poiché utilizza gli stessi artefici e, inizialmente, lo stesso impasto portato dall’Italia. I forni e i laboratori furono smantellati, gli scarti di fornace seppelliti. Il marchio di Capodimonte, e inizialmente anche del Buen Retiro, consisteva nel giglio borbonico, bleu sotto coperta o incusso. La porcellana di Meissen costituì il primo modello per Capodimonte; è facile riscontrarlo nel ripetersi delle caratteristiche forme di teiere e caffettiere, nella sagomatura di anse e beccucci, in alcuni elementi decorativi molto simili, come i Laub und Bandelwerk e le cineserie in oro su fondo bianco. Furono prodotti anche i grandi vasi da caminetto panciuti col coperchio a cupoletta, di derivazione cinese filtrata attraverso modelli di Meissen. Oltre alle porcellane sassoni, fornirono spunti alla decorazione le stampe francesi, di Watteau, Boucher, Oudry; si diffusero così le consuete scene rococò con galanterie, giochi di bimbi, ma anche marine, paesaggi, nature morte. Non mancarono riproduzioni da pittori italiani contemporanei e del passato, particolarmente da Annibale Carracci, che aveva decorato la galleria del Palazzo Farnese a Roma.

La porcellana nella storia: dalla Cina all’Europa

Delicata, preziosa e sonora al tocco, fine e di un biancore translucido, la porcellana ha sempre incuriosito e affascinato gli uomini.

Dalla Cina, la sua terra d’origine, arrivò in Europa diventando il mezzo d’espressione di un’arte sofisticata: costituendo un vero fenomeno sociale.

L’etimologia della parola porcellana è molto controversa. L’opinione più diffusa ne attribuisce l’origine alla parola “porcellana” che indica una conchiglia translucida e madreperlata, abbastanza comune nei mari caldi. Il primo testo europeo conosciuto che usa la parola “porcellana” è il giornale di bordo di Marco Polo che, nel 1295, dopo un soggiorno di 24 anni in Asia, aveva portato in Italia dei campioni di porcellana cinese. Egli chiama “porcellana” sia la terracotta cinese che le conchiglie che servivano come monete di scambio in alcune zone della Cina.

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In Cina abbonda il caolino, materiale base della porcellana. La parola caolino (gaolin tu) deriva da Gaoling (in cinese: alta cima), collina con importanti giacimenti di questa argilla, al nord di Jingdezhen.

Jingdezhen (antica King-to-tchen), nello Jiangxi, era già dal 1369 il centro della produzione ceramica imperiale. Fin dal secolo XVI, intorno a questa città, i cinesi organizzarono una produzione destinata all’esportazione.

L’altro materiale usato era una roccia pegmatica molto diffusa nel sud della Cina, chiamata dai cinesi “pétuntsé” (pietra di porcellana), i cui costituenti maggiori erano quarzo e sericite. Contrariamente a quanto riportato da molti in Occidente, il feldspato, come pure il caolino, vi erano presenti solo in piccole percentuali. La sericite, un’idromuscovite potassica, aveva proprietà plastiche come il caolino e fondenti come il feldspato.

Già durante le dinastie Shang e Zou (1600 – 220 a.C.), tali materiali venivano adoperati, separatamente, per comporre impasti ceramici che, una volta foggiati, venivano cotti alla temperatura (1000 – 1200° C) consentita dai forni dell’epoca.

I prodotti ceramici ottenuti dagli impasti più refrattari di caolino erano bianchi ma molto porosi (terraglie); mentre quelli ottenuti dal “pétuntsé”, più fusibile, possedevano un corpo denso e, parzialmente, translucido, tanto da essere considerati dagli studiosi delle “proto-porcellane”. Il loro colore era grigio-verde o bruno per l’eccessiva presenza di ossidi di ferro e di titanio.

Con la costruzione di forni capaci di raggiungere una temperatura di 1250 – 1350° C, durante la dinastia Han (25 – 250 d.C ), si riuscì a produrre una vera porcellana, ma il suo colore restava grigio-verde o giallo.

La produzione delle prime porcellane bianche avvenne durante le dinastie Qi e Sui (556 – 618 d.C.) nel nord della Cina, dove all’epoca dei Tang e dei Sang (618 – 1279 d.C.), impiegando come materiale di base caolino misto a feldspato e/o a un minerale calcico-magnesiaco, si riusciva a mettere in opera porcellana candida come la neve. Porcellane bianche furono prodotte in questo periodo anche in altre regioni; ma soprattutto nel sud prevaleva la produzione di porcellane di alta qualità con coperta verde, data la difficoltà di ottenere “pétuntsé” esente da ferro. Intanto erano stati compiuti grandi progressi nella preparazione e nella applicazione di coperte e di colori. Un passo decisivo verso l’ottimazione e lo sviluppo della produzione della porcellana fu compiuto durante la dinastia Yan (1279 – 1368 d.C.), allorché a Jingdezhen, l’impasto fu preparato mescolando caolino e “pétuntsé”.

Lo scheletro di cristalli aghiformi di mullite che si formavano dal caolino (le ossa) durante le ultime fasi della cottura sostenendo la fase vetrosa formatasi dal “pétuntsé” (la carne), fece ridurre drasticamente le perdite che si avevano cocendo impasti senza o con scarsa quantità di caolino. L’aggiunta di caolino, più facilmente ottenibile, esente da ferro e la cottura in atmosfera riducente, portarono inoltre, alla produzione di porcellane dalla pasta compatta e perfettamente bianca.

Sotto le dinastie successive la porcellana si perfezionò e diventò l’espressione di un’arte ufficiale e privilegiata, molto apprezzata dall’imperatore e dall’élite del paese.

Il commercio introdusse la porcellana cinese in Europa: veniva venduta correntemente sulle coste del Mediterraneo fin dal XII secolo. Circondata dal mistero della fabbricazione essa fu molto apprezzata nelle corti europee dove si diffuse nel XIV secolo, spesso ornata di bronzi o di oreficerie. Questo alone di mistero proveniva soprattutto dal fatto che i lavoratori di maiolica europei erano incapaci di ottenere il biancore e la translucidità che la caratterizzavano. Gli scienziati europei, appassionati di alchimia, erano affascinati da questo fenomeno a tal punto che si arrivò ad attribuire alla porcellana qualità magiche: “… i turchi bevono l’acqua in una specie di vaso…perché si crede che un cambiamento della sua trasparenza indicherebbe la presenza del veleno”, scrive nel 1600 Simon Simonius, primo medico della corte di Boemia.

La produzione di porcellana cinese conosciuta dagli europei può essere così classificata:

  1. il genere “blu e bianco”, il più diffuso in Europa, già nell’epoca Yuan (1279 – 1398), è molto famoso nell’epoca Ming (1368 – 1644). La sua caratteristica è l’impiego di un blu cobalto, colore probabilmente importato dall’Iran, posto sulla porcellana prima della “coperta” (vernice trasparente). Alla fine dell’epoca Ming, la produzione “blue bianco” fu soprattutto orientata verso l’esportazione;

  2. il genere “rosa”, (terminologia di A. Jacquemart), apparso sotto il regno di Yongzheng (1723 – 1735), fu caratterizzato dall’impiego di uno smalto rosa porpora derivato dal cloruro d’oro.

Nel campo delle “coperte” bisogna notare la produzione molto raffinata dei “céladons”, verde pallido, di origine Tang (620 – 900) che ebbe un brillante periodo sotto i Qing. All’epoca di Kangxi (1622 – 1722) risalgono delle “coperte” a “gran fuoco” come il “sangue di bue” che gli europei hanno sempre cercato di imitare. I “bianchi di Cina”, vernici incolore applicate su statuette non colorate, costituirono una produzione importante di Jingdezhen. I rapporti con l’Europa si intensificarono a partire dal XVI secolo, con l’arrivo dei mercanti portoghesi e delle missioni gesuite. I portoghesi commercializzarono i prodotti delle Indie orientali in Europa: fu di moda ordinare in Cina dei servizi o altri pezzi di cui si fornivano i modelli decorativi. Nel XVII secolo l’importanza commerciale della porcellana che veniva dall’estremo Oriente era notevole. Ecco alcuni esempi: nel 1664, 11 bastimenti olandesi provenienti dalle Indie orientali portarono 44.943 pezzi di porcellana dal Giappone, secondo il “Rapporto della Compagnia delle Indie Orientali riguardo allo stato degli affari nelle Indie”. Il Mercuri Galant di settembre del 1700 parla di una vendita a Nantes, per la Compagnia delle Indie, del carico dell’Amphytrite che comporta fra l’altro “167 casse di porcellana”. La ceramica, conosciuta in Giappone fin dal XIII secolo, si era affermata nel secolo XVI. La prima porcellana giapponese fu realizzata nel secondo anno dell’era Genna (1616). Fu opera di un ceramista coreano chiamato Ri Sampei, che la fabbricò vicino ad Arita (il caolino era stato scoperto nella parte alta del fiume Arita).

Il desiderio di porre fine ad una costosa importazione straniera spinse gli Stati e le Signorie locali d’Europa a promuovere i tentativi di scoprire o di procurarsi il caolino indispensabile per la fabbricazione della vera porcellana (porcellana dura), o di produrre una pasta artificiale senza caolino (porcellana tenera) ma comunque simile a quella cinese.

Materie prime e fasi produttive

Le materie prime si suddividono in due categorie principali:
1. materie prime per i supporto 2. materie prime per gli smalti
le materie prime per il supporto si riferiscono agli impasti (necessari alla costruzione del supporto( che sono dati da miscele di:
argille a diverso grado di plasticità, che permette di ottenere con la formatura piastrelle dotate già allo stato crudo di idonee caratteristiche meccaniche; materie prime quarzose, (sabbie, quarzifere) costituenti lo scheletro del corpo ceramico, per limitare così le variazioni dimensionali conseguenti alle operazioni di essiccamento e cottura. Materie prime feldplastiche- carbonatiche, la cui funzione è quella di produrre in fase di cottura una fase fusa che permette di ottenere una struttura più o meno vetrosa e compatta del prodotto finito.
Gli smalti sono miscele di diversi minerali e composti, che vengono applicati sulla superficie della piastrella e quindi portati a fusione, in modo da formare, dopo raffreddamento, un rivestimento vetroso. Il componente fondamentale è la silice che è la più importante sostanza vetrogena a cui si aggiungono, per contenere la temperatura di cottura dello smalto a livelli accettabili, elementi quali: ioni alcalini e alcalino terrosi, alluminio, o anche piombo o zinco. Le fritte sono composti vetrosi preparati per fusione, e rapido raffreddamento in acqua di miscele di materie prime selezionate.
Preparazione impasto I. Immagazzinamento e stoccaggio delle materie prime Le materie prime per l’impasto sono trasportate nel sito generalmente mediante autocarri e vengono scaricate e immagazzinate in apposite aree coperte, in lotti distinti a seconda del tipo. Dal deposito le materie prime vengono inviate al reparto di preparazione impasto.

 

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II. Preparazione paste per estrusione La materia prima viene preparata per ottenere u 15%), idonea quindi per la formatura mediante estrusione. Residui di produzione quali scarto cotto, scarto crudo possono essere introdotti nella composizione dell’impasto. Pertanto le varie operazioni eseguite sono: il dosaggio, al macinazione, la miscelazione e l’umidificazione. I principali impianti che intervengono nella produzione sono: mulini frantumatori, molazze, impastatrici, laminatoi.
III. Preparazione di polveri per pressatura Si tratta di produrre una polvere con un predefinito contenuto d’acqua (intorno al 4-6%), idonea per la formatura mediante pressatura. Tali polveri vengono poi inviate ed immagazzinate in appositi silos.
Questo stesso obiettivo può essere perseguito attraverso tre diversi processi:
1. processo a secco tradizionale; 2. processo a secco con granulazione; 3. processo a umido ;
Il primo processo è caratterizzato fondamentalmente dalle seguenti operazioni: dosaggio, macinazione ed umidificazione; gli scarti di produzione e i rifiuti di depurazione, cioè polveri, vengono riciclati in tale fase.
Nel secondo tipo di processo il granulatore ha la funzione di umidificare l’impasto (quindi si deve aggiungere acqua) fino ad ottenere un tenore in umidità del 10-15% in modo da favorire l’agglomerazione delle particelle in granuli tondeggianti di predefinita distribuzione granulometrica; nella sezione terminale del granulatore, i granuli vengono parzialmente essiccati in modo da portare il contenuto d’acqua al valore prestabilito.
Nell’ultimo processo la macinazione della materia pria (materiali duri) avviene ad umido, mentre la frazione argillosa viene disciolta completamente in acqua; dai mulini esce una sospensione acquosa di particelle fini d’impasto, al quale viene poi miscelata ed omogeneizzata con la frazione argillosa preventivamente disciolta nel turbodissolutore.

Ne risulta un composto detto barbettina (contenuto in acqua pari al 30-40%) che viene inviata all’essiccatoio a spruzzo (atomizzatore); in tale fase del processo il contatto con aria calda (500600°C), provando l’istantanea evaporazione della maggior parte dell’acqua, determina la formazione di agglomerati tondeggianti di particelle fini, che costituiscono appunto la polvere idonea alla pressatura.
Formatura La formatura consiste nel modellare le piastrelle nel formato specificato e si esplica nelle operazioni di estrusione o pressatura. L’estrusione consiste nell’introdurre, nell’impianto di estrusione, la pasta che uscendo poi da un’apertura opportunamente sagomata, assume le dimensioni prestabilite (previa operazione di taglio in funzione del formato desiderato). La pressatura ha lo scopo di compattare le polveri mediante l’applicazione di una pressione (variabile da 20 a 50 MPa), la quale modifica, riassetta e mette in aderenza i granuli d’impasto, con la finalità di ottenere un prodotto compatto crudo.
Essiccamento L’obiettivo di suddetta operazione consiste nel rimuovere dal prodotto formato l’acqua d’impasto in conformità con la necessità di garantire l’integrità e la regolarità dimensionale del prodotto al fine di salvaguardare il manufatto da rotture e distorsioni dimensionai.
Preparazione smalti Tale operazione (macinazione ad umido dei vari costituenti) ha la finalità di ottenere, con riferimento alle tecniche convenzionali di smaltatura, gli smalti pronti per l’applicazione sottoforma di sospensione acquosa di particelle fini.
Smaltatura La smaltatura consiste nell’applicazione degli smalti e decori sulla superficie delle piastrelle formate ed essiccate.
Cottura Si effettua durante questa fase il consolidamento e la reificazione del supporto e/o dello smalto delle piastrelle, in modo da conferire al prodotto stesso, caratteristiche meccaniche di resistenza e d’inerzia chimico-fisica, adeguate alle diverse specifiche utilizzazioni.

Operazioni accessorie Dopo la cottura possono essere realizzate ulteriori lavorazioni: taglio, levigatura, lappatura, smussatura. La levigatura o lucidatura riguarda la superficie delle piastrelle di grès porcellanato e consiste nella rimozione controllata dello stato superficiale mediante appositi dischi abusivi.
I Manufatti – fasi produttive
I manufatti di porcellana e/o ceramica possono essere realizzati seguendo le classiche varie fasi della produzione delle ceramiche tradizionali e nella fattispecie

  • arrivo materie prime
  • stoccaggio
  • preparazione impasti
  • preparazione modello in argilla
  • formatura del modello di argilla
  • preparazione stampi e modelli per la riproduzione
  • colaggio della barbettina negli stampi
  • essiccamento lavorazione e rifinitura
  • decorazione sottovernice o a rilievo
  • cottura smaltatura/decoro sottosmalto
  • decorazione
  • invetriatura
  • cottura
  • decorazione terzo fuoco
  • applicazioni serigrafiche
  • essiccamento cottura

Cicli di fabbricazione

Le piastrelle di ceramica o porcellana sono il risultato di un processo produttivo che in linea generale segue fedelmente quello tipico della maggior parte dei prodotti ceramici. La composizione del ciclo tecnologico è caratterizzato da variazioni di tipo produttivo in funzione del tipo di prodotto che si vuole ottenere. Fondamentalmente si considerano tre cicli schematizzati in figura 3, ai quali si può ricondurre tutta la gamma di tipologie produttive di piastrelle ceramiche:
il primo ciclo: si riferisce alle piastrelle non smaltate (cotto, grès rosso, grès porcellanato, clinker); il secondo ciclo è quello delle piastrelle smaltate in bicottura (maiolica e cotto forte), cioè caratterizzato da due cicli termici distinti: il primo per consolidare il supporto, il secondo per stabilizzare gli smalti ed i decori; il terzo ciclo riguarda le piastrelle ceramiche smaltate in monocottura nelle quali gli smalti ed i decori vengono applicati sul supporto essiccato e si effettua un solo ciclo di cottura (monocottura chiara rossa, grès porcellanato smaltato, clinker smalto e cotto smaltato).

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Figura 3. Schema cicli di produzione piastrelle
Questa schematizzazione dei vari processi produttivi riguarda i “cicli completi”; nel senso che le correnti entranti sono costituite dalle materie prime, mentre la principale corrente uscente è rappresentata dal prodotto finito. Vi sono altresì aziende il cui assetto tecnologico non rispecchia quest’impostazione, ma che si caratterizza per un ciclo “parziale” (non comprendente tutte le fasi tecnologiche riportate nella tabella precedente).
I cicli parziali si distinguono in:

1. cicli di monocottura – a partire da polveri di pressatura di provenienza estranea; 2. ciclo “bicottura/biscotto”, cioè che giunge fino alla prima cottura del supporto; 3. il ciclo “bicottura/smalteria” in cui il biscotto viene sottoposto asmaltatura e successiva cottura del vetrato.

Tipologie produttive relative alla produzione di manufatti e/o piastrelle in porcellana e/o in ceramica

La classe di prodotti “piastrelle di ceramica o porcellana per pavimento e rivestimento” comprende diverse tipologie, contraddistinte da specifiche caratteristiche ed applicazioni, e da tecniche e tecnologie di fabbricazione particolari. Esistono attualmente due diversi modi di classificare la produzione:
1. una classificazione tecnico-commerciale, usualmente impiegata sia dai produttori che dagli utilizzatori, fondata sulla base di varie caratteristiche merceologiche, tecniche e tecnologiche cui corrispondono speciali denominazioni (ad esempio maiolica, monocottura, gres porcellanato); 2. una classificazione secondo le norme vigenti, basata su due parametri: l’assorbimento d’acqua (che fornisce una misura della porosità aperta), ed il metodo di formatura ( pressatura o estrusione).
La classificazione tecnico-commerciale prevede la seguente tipologia di prodotti: 1. Monocottura Piastrelle ceramiche ottenute per pressatura, di formato da 10×20 cm a 40×40 cm e oltre, smaltate. Ciclo di fabbricazione: monocottura (lo smalto è applicato sul supporto essiccato; segue una sola cottura, che coinvolge sia il supporto che lo smalto). Possono essere a supporto bianco/grigio (monocottura chiara) o rosso (monocottura rossa); a supporto greificato o poroso. Le piastrelle in monocottura a supporto poroso, utilizzate per il rivestimento di pareti interne, sono denominate “monoporosa”. 2. Maiolica/Cottoforte Piastrelle ceramiche ottenute per pressatura, di formato generalmente compreso fra 15×15 cm e 20×30 cm smaltate. Ciclo di fabbricazione: bicottura (la prima cottura è quella del supporto. Segue l’applicazione dello smalto, sul supporto cotto (biscotto), per poi concludere il ciclo con la cottura dello smalto (seconda cottura o cottura vetrato). La struttura è sempre porosa (assorbimento d’acqua superiore al 7-8%, per il cotto forte, ed al 10-12%, per la maiolica). 3. Grès porcellanato non smaltato Piastrelle ceramiche ottenute per pressatura, di formato variabile (da meno di 20×20 cmq a lastre di 60×100 cm di lato), non smaltate. Ciclo di fabbricazione: monocottura. Il supporto è greificato (l’assorbimento d’acqua è inferiore a 0.5%). Prodotto colorato “in pasta”, con possibilità di realizzare diverse tessiture cromatiche. La superficie può essere ulteriormente lavorata in stabilimento: ad esempio, levigata, lappata etc. 4. Grès porcellanato smaltato Piastrelle ceramiche ottenute per pressatura, di formato variabile (da meno di 20×20 cm a lastre di 60-100 cm di lato), smaltate. Ciclo di fabbricazione: monocottura (con applicazione di smalto su supporto essiccato). Il supporto è greificato (l’assorbimento d’acqua è inferiore a 0,5%). 5. Altri Clinker: piastrelle ottenute per estrusione, a partire da impasti di diverse materie preparati in stabilimento. Sono a supporto generalmente greificato, e possono essere smaltate oppure non smaltate. Cotto: piastrelle ottenute per estrusione, a partire da un impasto naturale di argille ed altre rocce, che conferiscono al prodotto il tipico colore rosso. Il cotto ha supporto poroso, ed è generalmente non smaltato.
Per quel che riguarda la classificazione secondo le norme, le piastrelle vengono suddivise in nove gruppi come mostrato nella tabella n.2.

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Tabella 2

La produzione delle aziende del comparto in esame si caratterizza per una diversificazione fondamentale: prodotto “finito” e prodotto “ semilavorato”. Il prodotto “finito”consiste nella piastrella ceramica utilizzata in edilizia per il rivestimento di pavimenti e pareti dei vari ambienti, mentre il semilavoro rappresenta un prodotto che ha raggiunto un livello di lavorazione intermedio ed è destinato ad essere sottoposto ad ulteriori lavorazioni in altre unità produttive.

Questi prodotti, che hanno concluso il processo di lavorazione, sono perciò acquistati da altre aziende che li utilizzano per fabbricare l’elemento finale e si distinguono in:
1. Polveri atomizzate (monocottura, grès porcellanato) – sono il prodotto della fase di “Preparazione impasti” – come semilavorato per la successiva fase di pressatura. 2. Biscotto – supporto cotto destinato alla smaltatura. 3. Fritte – sono materiali vetrosi usati come costituenti degli smalti e rappresentano il prodotto dei forni fusori. 4. Smalti – sono sospensioni acquose ( con tenore d’acqua dell’ordine del 40%) di polveri finemente macinate di miscele fritte, sabbia silicea, caolino ed altri componenti.