La porcellana di Capodimonte

La manifattura di Capodimonte sorse per volontà di Carlo di Borbone re di Napoli, nel clima di rinnovamento culturale e artistico che percorse la città ad opera sua e del primo ministro Marchese di Montealegre. L’arrivo a Napoli delle famose collezioni dei Farnese esercitò un notevole impulso: nuovi opifici furono creati per la fabbricazione di arazzi e pietre dure, poi, nel 1740, nel giardino del Palazzo Reale, iniziarono gli esperimenti per ottenere la porcellana.

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La giovane sposa di Carlo di Borbone, Maria Amalia di Sassonia, era nipote di Augusto II il Forte, e aveva portato con se alcuni servizi di Meissen, contribuendo così ad orientare i gusti del re. L’arcanista Livio Vittorio Schepers e il figlio Gaetano riuscirono ad ottenere la porcellana, servendosi di terre locali, in particolare calabre. Alla decorazione fu preposto Giovanni Caselli, miniaturista di corte; vi contribuì anche Giuseppe della Torre, mentre il modellatore fu il fiorentino Giuseppe Gricci. Il 15 marzo 1743 il re diede incarico all’architetto Ferdinando Sanfelice, ingegnere di corte, di progettare la fabbrica da sistemarsi nel Parco di Capodimonte. Il Sanfelice, costruttore della chiesa della Nunziatella e di altri importanti edifici civili, fu in grado di risolvere non pochi problemi tecnici per adattare a Manifattura un casamento già esistente nel Parco di Capodimonte e abitato dal Guardiamaggiore. L’opera fu portata a termine con eccezionale rapidità nel giugno dello stesso anno, 1743.

Superate le difficoltà iniziali, malgrado non fosse stato possibile far venire da Doccia l’Anreister, come si era tentato, e altro personale da Vienna, si ottennero risultati straordinari: la pasta era bianchissima e translucida, rivestita da una coperta brillante e compatta; Caselli e gli altri decoratori ne traevano eccezionali effetti cromatici . alla morte del Caselli, avvenuta nel 1752, subentrò come capo del reparto di decorazione il tedesco Johann Sigismund Fischer, e successivamente Christian Adler e Luigi Restile. Furono istituite vendite per colmare il passivo che la fabbrica costituiva per il bilancio della Corte, ma anche così le spese rimasero sempre enormi rispetto alle entrate, pur costituendo la produzione di porcellana un fattore di grande prestigio.

Tuttavia il re era così legato alla manifattura da decidere di trasferirla in Spagna quando, nel 1759, ne ereditò la corona dal fratello Ferdinando; tutto ciò che fu possibile trasportare (artefici, impasti, attrezzature) fu imbarcato e contribuì al risorgere della manifattura al Buen Retiro, presso Madrid.

La produzione spagnola, specie nel primo periodo, è quasi indistinguibile da quella italiana, poiché utilizza gli stessi artefici e, inizialmente, lo stesso impasto portato dall’Italia. I forni e i laboratori furono smantellati, gli scarti di fornace seppelliti. Il marchio di Capodimonte, e inizialmente anche del Buen Retiro, consisteva nel giglio borbonico, bleu sotto coperta o incusso. La porcellana di Meissen costituì il primo modello per Capodimonte; è facile riscontrarlo nel ripetersi delle caratteristiche forme di teiere e caffettiere, nella sagomatura di anse e beccucci, in alcuni elementi decorativi molto simili, come i Laub und Bandelwerk e le cineserie in oro su fondo bianco. Furono prodotti anche i grandi vasi da caminetto panciuti col coperchio a cupoletta, di derivazione cinese filtrata attraverso modelli di Meissen. Oltre alle porcellane sassoni, fornirono spunti alla decorazione le stampe francesi, di Watteau, Boucher, Oudry; si diffusero così le consuete scene rococò con galanterie, giochi di bimbi, ma anche marine, paesaggi, nature morte. Non mancarono riproduzioni da pittori italiani contemporanei e del passato, particolarmente da Annibale Carracci, che aveva decorato la galleria del Palazzo Farnese a Roma.

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