PORCELLANA DI CAPODIMONTE TRA MITO E REALTÀ

Giuseppe Mascolo, Prof. di Chimica Applicata al Dpt. di Ingegneria Industriale Università di Cassino

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Premessa

Grazie alla Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Napoli e alla convenzione stipulata con la Regione Campania, è stato possibile effettuare la presente ricerca sulla porcellana di Capodimonte la cui produzione durò 16 anni (1743-1759) fino a quando Carlo III di Borbone, re di Napoli e di Spagna, trasferì al Buen Ritiro (Madrid) tutto il complesso della fabbrica operai compresi. Dalla Soprintendenza sono stati ricevuti un quantitativo di campioni di porcellana, costituenti del corpus di reperti, ritrovato nel 1950 in uno scavo eseguito nelle vicinanze della palazzina che è l’attuale sede dell’Istituto Professionale “Giovanni Caselli” di Napoli, dove in passato era la reale fabbrica di Capodimonte. Mentre per le porcellane d’epoca, sia cinesi che europee, è oggi possibile formulare ipotesi verosimili sia sulle materie prime impiegate che sul relativo ciclo di produzione, ciò non è possibile per la porcellana di Capodimonte, in quanto, i dati in archivio sono andati distrutti e le uniche informazioni si rifanno ad alcune analisi storiche (Minieri Riccio e Novi). Molteplici ipotesi sono state formulate sul ruolo svolto da una o pù materie prime nella composizione dell’impasto di porcellana di Capodimonte. Attualmente, l’unico accordo esistente fra i diversi studiosi della materia è relativo all’impiego di materie prime di provenienza locale. Un ulteriore dilemma è sulla natura della porcellana, ovvero, se essa è stata confezionata o meno con l’impiego di una fritta*

*Miscela bassofondente di vari ossidi, omogeneizzata per fusione e macinata.

Per la prima ipotesi propendono il D’Onofri (1788), Rebuffat (195) e Lane (1954); mentre Novi, Tesorone e Liverani optano per la seconda ipotesi. Tra le materie prime adoperate per la confezione dell’impasto ceramico, notevole importanza viene data al “tarso” di Fuscaldo, sulla cui natura chimica-mineralogica esiste una controversia. Caolino, quarzo, argilla bianca o roccia pegmatica rappresentano le differenti materie prime ipotizzate come tarso. È da tener presente che la porcellana di Capodimonte deve essere classificata come una porcellana tenera in quanto caratterizzata da una temperatura di cottura inferiore a 1280°C come è stato verificato da Liverani (1959) e, di recente dall’Istituto “Caselli”. L’intervallo di temperatura di rammollimento, misurato su uno dei reperti donato dalla Soprintendenza di Napoli al museo di Faenza, è risultato compreso tra 1180°C e 1220°C. Musella Guida, invece pone l’accento sul ruolo del gesso (CaSO4 2H2O) per l’apporto di CaO nell’impasto di porcellana. L’unica analisi chimica disponibile, eseguita su un campione di porcellana d’epoca, risale al 1905 da Rebuffat, prof. di Chimica Docimastica Università di Napoli.

RICERCHE ATTUALI SU REPERTI DI PORCELLANA D’EPOCA

Per queste ricerche ci si è avvalso di campioni di pochi mg prelevati dai reperti che costituivano scarti di lavorazione dell’epoca. In particolare sono stati selezionati diciannove campioni sui quali sono state effettuate indagini chimico-fisiche. Dalle analisi è risultata che la densità apparente è poco superiore a 2g/mL (2,05), valore coincidente ca. con quello di Rebuffat (2,04), mentre la densità reale si attesta su un valore di 2,42g/mL contro il 2,36g/mL di Rebuffat. Bisogna tener presente che un vetro di sola Silice (SiO2) ha una densità di 2,23g/mL; mentre le forme polimorfe della sice cristallina, quarzo e tridimite di bassa temperatura, sono caratterizzate dai valori di 2,65 e 2,24g/mL. La densità dei reperti si attesta su un valore intermedio tra quello della silice vetrosa e quello delle fasi cristalline stabili al di sotto di 1200°C.

Dalle analisi fatte da Rebuffat su una tazzina di Capodimonte risultò che il contenuto di silice era piuttosto elevato (85,68%), atipico per una porcellana. Il contenuto di allumina (Al2O3) è risultato basso se rapportato a quello di altre porcellane dell’epoca e in particolare alle porcellane dure, caratterizzate da un tenore di allumina molto più elevato. Questo potrebbe implicare che la maggior parte del contenuto dell’allumina, presente nella composizione della porcellana partenopea, debba associarsi alla componente argillosa indispensabile alla realizzazione di un impasto ceramico lavorabile. Su alcuni reperti e in particolare in corrispondenza di incavi è stata rilevata la presenza, in alcuni casi massiva, di polvere bianca, praticamente incoerente, che è stata oggetto di analisi diffrattometrica con i raggi X. Tale polvere è costituita da una miscela di quarzo e tridimite con tracce di feldspati. Le percentuali di SIO2 sono 92,5 , di Al2O3 3,55 , di K2O 1,85 , di Na2O 0,13 , di CaO 0,18 , MgO 0,21 , di TiO2 0,12 e Fe2O3 0,08. La presenza di tridimite in tale polvere e la sua locazione fa supporre che abbia subito le stesse vicissitudini termiche del reperto da cui è stata recuperata. Tale ipotesi è connessa col fatto che la tridimite è il prodotto della trasformazione polimorfa del quarzo quando quest’ultimo viene trattato a temperatura superiore a 870°C. Assumendo una temperatura di cottura per la porcellana di Capodimonte di 1200°C e un tempo di cottura di due giorni; come emerge da un documento che riporta un colloquio tra il re e l’ambasciatore piemontese, nel quale il re si rammaricava di no aver trovato una materia capace di resistere oltre 48 ore al fuoco delle sue fornaci, a differenza della porcellana tedesc di Meissen che vi resisteva 8 giorni, si giustifica la presenza della tridimite in miscela con il quarzo nella predetta polvere. È noto che la velocità di trasformazione polimorfo quarzo-tridimite è lenta e può essere accelerata dalla presenza di un fase liquida che accompagni il quarzo in via di trasformazione. Poiché tale polvere è chimicamente costutuita da silice (92,5%) all’origine, cioè prima del trattamento termico, essa doveva essere costituita solo da quarzo. Se si confronta lo spettro di diffrazione ai raggi X della polvere con i reperti studiati appare evidente la stretta somiglianza mineralogica dei due campioni. Sono caratterizzati dalle stesse fasi cristalline: quarzo e tridimite. Nella porcellana è presente una frazione vetrosa che nel corso della cottura costituisce la fase liquida indispensabile per il processo di ceramizzazione, ché favorisce la trasformazione polimorfa del quarzo in tridimite, giustificando sia la minor q.tà di fasi cristalline sia più elevato il rapporto tridimite/quarzo della porcellana. Nella fase liquida, oltre alla silice, sono presenti tutti gli altri elementi della miscela ceramica, come glimossidi alcalini e alcalino terrosi (k2O e Na2O; CaO e MgO), oltre ai componenti minori. L’elevato contenuto di SiO2 e di ossidi alcalini della porcellana e le minori q.tà di ossidi di metallo alcalino terrosi, implicano la scarsa resistenza al fuoco e all’acqua della ceramica. La frazione meno durabile della porcellana è rappresentata dalla frazione vetrosa la cui stabilità è accentuata dalla presenza degli ossidi alcalino terrosi. Il toscano Paolo Paoletti, esperto nella conduzione delle fornaci della fabbrica di Capodimonte, si lamentava con il re per la scarsa resistenza al fuoco e all’acqua della porcellana e, quindi, ad un suo impiego nell’uso domestico. È significativo ricordare che il re pochi anni prima di morire, gli si ruppe la sua “chicchera” preferita, ove per 50 anni vi gustava la cioccolata calda e, la sostituì con una prodotta in Sassonia e non con una di Capodimonte o del Buen Retiro. Un ulteriore risultato è rappresentato dalla maggiore presenza del quarzo rilevato in numerosi reperti. Ciò giustifica la bassa produttività della porcellana d’epoca; la presenza massiva di quarzo nel prodotto di cottura comporta una repentina e pericolosa trasformazione polimorfa alla temperatura di 572°C cui si accompagna una variazione di volume con innesco di tensioni meccaniche in grado di determinare la frattura degli oggetti soprattutto in fase di raffreddamento. Il famoso tarso, potrebbe essere la polvere bianca recuperata dai reperti. Ipotesi possibile è che gli oggetti venissero protetti durante la cottura con lo stesso tarso, il quale subiva lo stesso trattamento termico della porcellana. Tale procedura, dal punto di vista tecnologico, consentirebbe due vantaggi, quali: di protezione dell’oggetto durante la cottura dalla fiamma e dall’inquinamento del combustibile e di uniformare il livello di cottura dell’oggetto. Un eventuale riutilizzo del tarso pretrattato nella confezione dell’impasto di porcellana consentirebbe una riduzione del contenuto di quarzo con riducendo i fenomeni di frattura. Un aspetto interessante emerso dalle analisi sui reperti è la presenza di SnO2 e K2O-CaO, il che fa dedurre che nella composizione dell’impasto di porcellana non si sia stata impiegata una fritta, in caso contrario gli ossidi alcalini dovrebbero essere distribuiti in modo omogeneo nella frazione vetrosa. Secondo Musella-Guida il precursore del CaO potrebbe essere il gesso. All’uopo fu svolta un’indagine mirata tramite microanalisi a dispersione di energia (EDS) per rilevare l’eventuale presenza di zolfo, che è risultato essere assente in tutti i reperti. Noto è che la decomposizione del CaSO4 puro in SO3 CaO ha luogo a temperatura elevata (1400°C ca.), il che farebbe intendere che il gesso non sia stato utilizzato nella confezione della miscela di partenza della porcellana. Tuttavia la presenza degli ossidi alcalini può facilitare la decomposizione del gesso e quindi la scomparsa di zolfo nei reperti. Tale desolforazione sarebbe correlabile alla formazione, durante la cottura, di composti misti a base di solfato di calcio e di ossidi alcalini caratterizzati da una temperatura di desolforazione inferiore a quella del gesso puro. Più della metà dei reperti, osservati in microscopia elettronica a scansione (SEM), sono caratterizzati da una notevole microporosità, che nel corso della cottura ha dato luogo all’evoluzione elevata q.tà di fase gassosa; si potrebbe affermare che i reperti siano stati confezionati con una miscela naturale senza l’impiego di una fritta; la microporosità giustificherebbe la tenuta e l’adesione degli smalti e degli elementi decorativi che hanno contribuito a rendere famosa la porcellana di Capodimonte.

IPOTESI DI CONFEZIONE DELL’IMPASTO DI PORCELLANA D’EPOCA

Sulla base dei risultati emersi dalle sperimentazioni è possibile formulare che il famoso tarso di Fuscaldo sia il nerbo della porcellana, essendo costituito da quarzo associato a tracce di feldspati. Si presume che questa polvere fosse utilizzata anche nella protezione degli oggetti di porcellana dal fuoco delle fornaci nel corso della cottura. In aggiunta al tarso, l’impasto di porcellana doveva contenere l’argilla di Vicenza in grado di fornire la necessaria plasticità in fase di foggiatura con apporto di Al2O3. Le perplessità maggiori sono connesse alla o alle materie prime impiegate come fondenti. Sia la presenza di relitti a base di CaO-K2O che la notevole microporosità manifestata dai reperti, fanno ipotizzare l’impiego di fondenti che in fase di cottura generavano notevoli q.tà di fase gassosa. Tale constatazione favorirebbe l’ipotesi di aggiunte di sostanze decomponibili quali tartaro (Novi), gesso etc, indispensabili fonti di K2O, CaO e Na2O. Nonostante l’impiego profuso in questa ricerca permangono incertezze sulle materie prime adoperate nella confezione dell’impastoper la produzione della porcellana di Capodimonte. Queste incertezze sono spiegabili dal fatto che le analisi sono state svolte su scarti di lavorazione e non sui reperti museali. La conditio sine qua non per dare una risposta al mito della porcellana di Capodimonte è di analizzare un campione museale.

INTERDISCIPLINARIETÀ E CAMPIONATURA NELLO STUDIO DELLA POCELLANA DI CAPODIMONTE

Caratteristiche dell’insieme di scarti della fabbrica di Capodimonte

L’insieme dei frammenti ceramici rinvenuti nello scarico della Fabbrica di Capodimonte costituisce, dal punto di vista statistico, un perfetto campionamento casuale, ed è rappresentativo del lavoro di sperimentazione e della produzione tecnologica maturata in quell’opificio. Esso ha il carattere della casualità in quanto si è costituito, durante tutto il periodo di attività della fabbrica, con oggetti frammentatisi in maniera accidentale e con scarti di cottura: tale situazione è assimilabile ad un’estrazione a caso, secondo una serie numerica, rappresentativa della tipologia produttiva. La possibilità di far riferimento ad una procedimento casuale di campionamento ci consente, in linea di principio, di renderci indipendenti dalle distorsioni nella selezione dei campioni, quando questa avvierei maniera mirata; inoltre, il numero elevato delle unità costituenti il campionario ci assicura, in senso statistico su una normalità del campione rispetto ai caratteri della produzione. Se ci fosse la possibilità di utilizzare tutti questi frammenti come campioni per le analisi, riusciremmo a conoscere dopo un congruo sforzo analitico i caratteri tecnologici di quella produzione. In realtà lo scarico ha attribuizioni che lo rendono esso stesso un Bene Culturale, il documento materiale del tentativo di impiantare una produzione manifatturiera ad alto valore aggiunto, capace di esportare i suoi prodotti e contribuire ad inserire il regno Borbonico tra gli Stati Europei più moderni. La collocazione della fabbrica in un contesto ad alto valore ambientale e paesaggistico qual è il Parco di Capodimonte, testimonia il tentativo di coniugare la necessità dell’industrializzazione con il resto dell’ambiente indice di una cultura tecnologica di notevole interesse. Il materiale recuperato va tutelato e, nelle indagini vanno selezionate parti rappresentative dello scarico su cui poter operare, secondo opportune tecniche, prelievi di materia per le analisi.

METODOLOGIA INTERDISCIPLINARE

La ricerca avviata è multidisciplinare con aspetti interdisciplinari, in quanto vede uno stretto rapporto tra chimici,fisici, ingegneri, ceramisti, decoratori, formatori, storici dell’arte e archeologi industriali. Nasce in un ambiente di cultura tecnico-scientifica, l’Istituto della Porcellana di Capodimonte, aduso, per tradizione didattica, alla necessità del dialogo tra le diverse componenti tecnico-scientifiche operanti nella scuola. Si impone la necessità di ricercare modi e strumenti di lavoro che accentuino le sinergie conoscitive tra le diverse discipline interessate al programma di ricerca scientifica, il cui ultimo fine è la ricostruzione fedele di tutti gli aspetti di questa particolare produzione artistico-industriale. Il criterio guida di questo lavoro è stato l’ampliamento della fase di documentazione propedeutica alle indagini di laboratorio, al fine di acquisire dati utili per la campionatura mirata. In tal modo, componendo il campionamento casuale ad una campionatura mirata, si avrà una altissima probabilità che i risultati degli studi analitici di laboratorio, sui pochi campioni che è possibile prelevare, siano rappresentativi dell’insieme degli scarti ed indirettamente dell’antica produzione di porcellana della fabbrica di Capodimonte. L’errore sarà in proporzione alla mancata corrispondenza degli scarti nela produzione della fabbrica, ma allo stato delle conoscenze “archeologiche e storico artistiche”, non vi sono dati per supporre un discostamento notevole tra scarti e produzione ceramica. Gli adempimenti preliminari alla campionatura, finalizzati agli scopi predetti, secondo la metodologia scientifica corente, sono: catalogazione del materiale mediante uno schema che prevede voci per tutti i parametri suscettibili di misura applicando indagini ed esami non distruttivi; documentazione fotografica dei frammenti in diapositive a colori; documentazione grafica dei frammenti più significativi; indagini non distruttive. Questo modo di procedere consente una ordinata raccolta di dati utili per lo studio dello scarico, comprensibile per tutti i componenti del gruppo interdisciplinare di ricerca. Le analisi da espletare vanno individuate con cura ed attenzione alla luce delle questioni che emergeranno dopo la prima fase di lavoro, e dovranno produrre dati, che opportunamente elaborati possono consentire allo studioso di guardare i reperti secondo una nuova luce. Un aspetto che facilita la comunicazione interdisciplinare è un lessico normalizzato, con funzione biunivoca tra il termine impiegato e il concetto o nozione che esso vuole esprimere. L’esame della letteratura mette in luce l’uso di termini discrezionali per l’analisi morfologica e tecnologica dei manufatti creando no poche difficoltà nella comunicazione scientifica.

CAMPIONAMENTO E CAMPIONATURA

Il campionamento e la campionatura devono risolvere i seguenti problemi: individuazione dei criteri dello scarico attraverso lo studio delle frequenze dei diversi frammenti; rappresentatività delle problematiche in laboratorio; prelievi rappresentativi delle situazioni osservate; esaustività della campionatura rispetto ai problemi conoscitivi e conservativi. Gli obiettivi sono: caratterizzazione dei manufatti e dei materiali costitutivi; studio delle trasformazioni avvenute nella fase di seppellimento; ricostruzione della tecnologia che li ha prodotti; definizione di criteri ed analisi capaci di orientare nell’attribuzione di autenticità della porcellana antica di Capodimonte. A questo scopo il DIMP e IPSIA della porcellana hanno misurato la densità dei frammenti distribuendo gli stessi tra i diversi valori; un’altra serie di dati utili alla selezione è stata acquisita con la catalogazione degli oggetti. Le proprietà prescelte sono: numero di precatalogo; forma/rappresentazione; peso/volume; spessore; colore; tecnica foggiante; rivestimento; difetti; ornato; valore di esteticità. La procedura di selezione prevede le seguenti operazioni: distribuzione dei frammenti tra le diverse densità rilevate (lavori DIMP e IPSIA); definizione dei sottoinsiemi per ogni classe di densità a secondo delle tecniche di foggiatura osservabili; ripartizione secondo le forme, il colore, l’esistenza di rivestimenti o di difetti; precatalogazione degli oggetti per valore di esteticità. Per le analisi si preleva un frammento dal reperto mediante taglio meccanico con una pinzetta da mosaicista che consente di controllare la frattura.

INDAGINI COMPARATE IN MICROSCOPIA OTTICA

È di particolare importanza che l’indagine scientifica sia assistita da una buona documentazione in diapositive a colori, in quanto quest’ultima rappresenta il dato scientifico che rende possibile e l’osservazione e la discussione secondo punti diversi di vista di segni, epigrafi, incrostazioni, decorazioni. Il passo successivo è l’osservazione al microscopio stereobinoculare, strumento che permette di osservare l’oggetto in visione binoculare e fisiologica in modo da vedere la microstruttura con il proprio bagaglio di idee e esperienze, effettuando valutazioni che nessun analisi può consentire. L’osservazione allo stereo microscopio può essere finalizzata all’indagine microscopica dei seguenti fatti: trattamenti superficiali; modalità della decorazione; osservazione del materiale in frattura; porosità; grana e tessitura del materiale. Tutte le osservazioni vanno documentate mediante fotografia in diapositive a colori. L’osservazione allo stereo è seguita dalle osservazioni a luce polarizzata di sezioni sottili del materiale, che oltre alle normali indicazioni petrografiche, ci consentono di avere una più chiara visione micro strutturale sia in rapporto ai parametri esposti per l’osservazione stereoscopica, sia rispetto a fasi di neoformazioni collegabili con la tecnologia produttiva dei manufatti. La funzione dell’indagine in microscopia ottica assume il compito di preparare ad una finalistica interpretazione i dati che si ottengono dalle analisi strumentali, quali la rifrattometria X, l’analisi in dispersione di energia, l’esame al microscopio elettronico a scansione (SEM), la porosimetria a mercurio, l’analisi termica differenziale.

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