La produzione ceramica a Napoli è stata ininterrottamente al centro di tutti gli svolgimenti più significativi di quest’arte che si sono succeduti nel Mediterraneo, dalla preistoria ai fasti della Magna Grecia, dalle maioliche islamicheggianti al grande momento della produzione di età aragonese ed alla straordinaria fioritura della maiolica tra ‘600 e ‘700.
La produzione, poi, della porcellana a Napoli vanta due episodi storici, difficilmente separabili tra loro, che le hanno conferito un posto di assoluta preminenza, insieme a Sévres ed a Meissen, nella produzione del settore in Occidente: il breve, ma quanto mai significativo episodio della Real Fabbrica della Porcellana di Capodimonte dovuto ad una precisa iniziativa politica di Carlo di Borbone, e l’episodio, di durata non molto più prolungata, di quella Real Fabbrica con cui Ferdinando IV di Borbone, prima a Portici e poi a Napoli, ha inteso precipuamente continuare, con analoghi intenti politici, la produzione prestigiosa della fabbrica istituita dal padre, avvalendosi per suo conto del prestigio che a lui doveva conferire tale continuazione1. L’eredità – problematica come proprio delle grandi eredità – , che la prima delle due manifatture, in particolare, ha storicamente posto in essere e lasciato al territorio2, non ingiustamente si è considerato che sia addirittura sconfinata nel mito3.
In sede, poi, di considerazione politico-economica della tradizione manifatturiera della porcellana a Napoli, non si può tralasciare di richiamare quali siano anche soltanto i risvolti in termini di flusso turistico della presenza in questa città del così detto “salottino della regina Maria Amalia”4, il quale ordinariamente si considera come il monumento emblematico della produzione storica della porcellana a Napoli. Taluni aspetti di questo monumentale boudoir hanno una validità duratura e su di essi non possono interferire le fluttuazioni della fortuna critica del rococo, al cui ambito di gusto solitamente si ascrive quell’arredo. Sono questi gli aspetti che maggiormente devono interessare chi tiene di mira la attuale produzione manifatturiera della porcellana. Essi sono certamente: la complessa organizzazione di un insieme di opifici, di tecnici e maestranze appartenenti a diversi settori manifatturieri5; il cimento senza quasi confronti con problemi di progettazione, realizzazione6 e messa in opera di un complesso anche più articolato di quanto non sia ora, poiché era comprensivo di un pavimento anch’esso in porcellana7; la organizzazione del cantiere dell’atto della messa in opera. Egualmente rilevante è la decisa proiezione culturale europea di un progetto di “salottino” cinesizzante secondo un orientamento proprio appunto delle corti europee 8. Tale progetto ha richiesto lo studio di più di uno specialista di cose orientali.
Ora, non si può nascondere che, mentre a Sèvres ed a Meissen, grazie alla accorta politica dello Stato che ha conservato ad esse uno statuto di manifattura statale, hanno continuato ininterrottamente la loro tradizione ad un livello sostenutissimo per cui esse rappresentano a tutt’oggi l’eccellenza della produzione del settore, a Napoli, dopo momenti tecnicamente, produttivamente e culturalmente così alti, i due episodi delle manifatture borboniche hanno dato l’avvio ad una tradizione avviatasi, in assenza di una tutela istituzionale, e per la sua appartenenza al fragile contesto della economia meridionale, a subire il grave danno della utilizzazione spesso abusiva e squalificante di un nome dal prestigio immenso per prodotti troppo spesso a tale tradizione del tutto inadeguati. È oramai proverbiale che il nome di Capodimonte, indubbiamente il più prestigioso che sia legato alla produzione ceramica nazionale, venga utilizzato per prodotti di Taiwan, magari in resina.
Esattamente a simili fenomeni fa fronte la legge 188/1990 sulla Tutela della ceramica artistica e tradizionale e della ceramica di qualità, ed è massimamente legittima la aspettativa che quello che è un bene economico e culturale venga tutelato, potenziato e fatto fruttare. Il preambolo del disegno di legge, che è del 1980, è puntuale: “Va…immediatamente osservato che l’interesse posto dagli amatori verso queste rievocazioni (quelle costituite dalle produzioni di tipo tradizionale), mentre ha suscitato un lucroso commercio interno ed esterno dando origine ad una redditizia fonte di lavoro per numerosi complessi produttivi, soprattutto a carattere artigiano e piccolo industriale, ha altresì determinato un’inquinamento, un deterioramento delle tipologie caratteristiche, una confusione che non può essere apportatrice di danni notevoli dai vari punti di vista, culturale non meno che economico. Infatti, l’incultura dell’acquirente grossista, aiutata dalla irriflessiva necessità di guadagno immediato del produttore, ha indotto a deformare i temi per semplificazione ed adeguamento al risicato compenso ed a trasferirli ad una originaria località di invenzione ad altra estranea che mostrava di eseguirli a condizioni più favorevoli, con conseguenze non di rado deplorevoli per il decoro del lavoro italiano”9.
Da tutto ciò si trae nel modo più inequivoco che l’applicazione della legge per la Tutela della ceramica artistica e tradizionale e della ceramica di qualità, non può essere, come qualcuno ha creduto, un’occasione propizia per ottenere un’artificiale promozione istituzionale ad operazioni produttive di nessun respiro già in atto da anni sui livelli più bassi, anche sul piano dei ricavi, ma esattamente una rigorosa definizione in termini tecnici e scientifici dei limiti tutelati dalla legge, entro cui i produttori siano insieme incoraggiati ed obbligati a tenersi al livello di dignità qualitativa stabilito storicamente dalla migliore tradizione territoriale. Per altro, la rispondenza impressionante del quadro nazionale qui tracciato dal legislatore e quello regionale ben si può riscontrare in analisi come quelle condotte in una pubblicazione promossa dall’Assessorato all’Industria e all’Artigianato della Regione Campania del 198410, e, dunque, occorre dire che questa regione ha nella produzione della porcellana di Napoli all’insegna del nome di Capodimonte forse l’esempio più alto del bisogno di un intervento legislativo e più estesamente istituzionale per tutelare le reali potenzialità tecniche e produttive del territorio e dare ad esse modo di svilupparsi adeguatamente, contro qualche ripiegamento irriflessivo, dettato dal difetto di una vera mentalità imprenditoriale, sull’immediato e più facile guadagno di qualche imprenditore, esattamente come ha visto il legislatore sul piano nazionale.
In questo senso vanno poste come necessità esplicitamente definite, a cui fa fronte il disciplinare che qui segue, quelle che si trovano definite ancora in quel preambolo:
“ 1) difendere i tipi nella loro purezza originaria e impedirne la degradazione;
2) definire le zone di origine e di produzione delle singole tipologie, ad evitare invasioni di campi ed una concorrenza che non può andare a detrimento del prodotto;
3) munire le zone tipiche maggiormente attive in Italia di un distintivo, che contrassegni il prodotto a garanzia di qualità…”11.
Dunque, occorre dire, a proposito di quest’ultimo punto, come conseguenza di quanto si è sin qui detto, che non vi può essere ragionevole dubbio che, se il nome di Capodimonte si pone universalmente come significativo del grande prestigio artistico e tecnologico che la Real Fabbrica di Carlo di Borbone ha conferito alla produzione locale, la legge 188, con espliciti ed insistiti richiami all’obbligo di rispettare il nesso tra i luoghi e le produzioni che autenticamente li hanno caratterizzati, impone un uso corretto dell’emblema che indissolubilmente a tale fabbrica si lega, cioè del giglio azzurro. Nello stesso tempo deve restare chiaro che è storicamente la fabbrica madre, cioè quella di Capodimonte, che ha instaurato un prestigio e lo ha conferito alla tradizione napoletana12, stabilendo, di fatto, un vincolo qualitativo al quale, senza obblighi esterni ma per ambizione di qualità, si è per prima attenuta la fabbrica ferdinandea. Concludendo la sua esplorazione sulle porcellane della Real Fabbrica, Francesco Stazzi, nel 1972, formulava questa proposizione che giudicava lapalissiana: “ da quando siamo venuti fin qui esponendo risulta chiaro che per porcellana di Capodimonte si deve intendere soltanto quella uscita dalla Real Fabbrica di Carlo di Borbone (1743- 1759)”13. Dunque, il marchio della porcellana di qualità a Napoli è insopprimibilmente il giglio azzurro associato al nome di Capodimonte14. Qualsiasi altra soluzione va contro il senso della legge 188, mentre il preambolo al suo progetto fa un preciso riferimento a quella “in cultura dell’acquirente grossista” che, così, non può essere assunta a punto di riferimento, come talvolta è stato, né per questioni di marchio, né di linea di produzione. È questo, in tal modo, il marchio con cui il seguente disciplinare stabilisce sia munita la produzione del territorio di Napoli. In ciò, questo disciplinare non fa altro che conformarsi a quanto ha già, per suo conto codificato, una consolidata letteratura scientifica sull’argomento.
Poiché, poi, la produzione della seconda delle due fabbriche borboniche, di quelle che le hanno seguite immediatamente dopo e di quelle che ne hanno continuato la tradizione, è stata caratterizzata da una produzione di manufatti in terraglia che ha raggiunto, sul piano qualitativo, punte molto alte15, tanto che non sono poche le opere in terraglia che hanno un posto di riguardo nella scultura napoletana della fine del Settecento16, e poiché tecnicamente e tecnologicamente tale materiale è perfettamente confacente ad una produzione succedanea ad alto livello e di naturale complemento merceologico di quella in porcellana, si è ritenuto non potersi fare a meno di contemplare anche la tutela di una produzione di manufatti artistici in terraglia tramite l’applicazione di un apposito marchio. L’associazione tra produzione di porcellana e produzione di terraglia risale alla Real Fabbrica di Ferdinando IV e fu esemplare tanto che si è dato il caso della fabbrica del castello di Pescolanciano che, concepita ad imitazione della Real Fabbrica, riuscì famosa più che altro per la terraglia17. Al che va aggiunto che talune rilevanti opere, eseguite in porcellana, furono replicate in terraglia, come è il caso del gruppo del “Toro farnese” realizzato nel primo ‘800 nella fabbrica ferdinandea e replicato più tardi, si ignora se nello stesso od in altro opificio18.
Dunque, considerata la esigenza di indicare come la produzione di manufatti in terragliasi svolga nel solco della tradizione al cui centro è quella della porcellana, ma distinguendola filologicamente con un richiamo alla produzione storica qualitativamente più alta, il marchio specifico che la dovrà contrassegnare dovrà essere una “N” richiamate quell’opificio promosso da Ferdinando IV che iniziò e contemporaneamente rese esemplare la produzione napoletana di terraglia o, come si indicava all’epoca di “creta all’uso inglese”. Al testo della denomizzazione starà, poi, la indicazione esplicita del distinto materiale in cui è realizzato il manufatto.
Giova, qui, ricordare che la salvaguardia della tradizione artigianale ceramica viene da un impulso dell’UNESCO: “ La salvaguardia di quest’arte, antica quanto l’uomo, è stata anche affermata in sede UNESCO, che ha raccomandato ai governi nazionali di adottare i necessari provvedimenti atti a tutelare un patrimonio di grande rilievo storico, artistico, tecnico, culturale, economico”19. In tal modo, nel frangente, non è pensabile altra via che quella di uniformarsi al disegno più sostenuto di un organo internazionale ai massimi livelli civili, disegno che è unitamente un disegno culturale ed economico, secondo un concetto che taluni operatori impreparati e marginali stentano a capire nel davvero rozzo e non imprenditoriale convincimento che la cultura soddisfi esigenze astratte ed antieconomiche e che badare agli affari con concretezza porti ad un qualche sacrificio della cultura.
In considerazione di quanto ora esposto era conseguente affidare la codificazione dei tipi di manufatti in porcellana da riconoscersi come artistici e tradizionali, così come la definizione delle regole con cui disciplinare lo svolgimento della tradizione, ad una vera preparazione con l’intervento degli enti preposti, tra l’altro, alla tutela della produzione storica della porcellana di Napoli, delle istituzioni scientifiche preposte e degli esperti delle relative discipline. Così, qui, ci si è avvalsi delle pluriennali ricerche multidisciplinari, sulla tipologia e tecnologia della produzione storica, condotte dall’Istituto “G. Caselli”, in collaborazione con la Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Napoli e la Soprintendenza alle Antichità di Napoli e Caserta20, con le Facoltà di Ingegneria dell’Università di Napoli e dell’Aquila e finanziato dalla Regione Campania esattamente con finalità di riqualificazione del settore della porcellana artistica21.
Mentre si è cercato di captare, anche informalmente, e di tenerne qui conto, quanto si sta muovendo in Italia a livello di “normalizzazione” della terminologia della ceramica. Così, occorre ripetere in questa sede ciò che fu detto nel presentare i risultati di quella ricerca, cioè, che “ solo partendo dallo studio e dalla ricerca scientifica si può seriamente e proficuamente definire il disciplinare di produzione della ceramica artistica e tradizionale di ciascuna zona”22. Dunque, allo stato attuale la Regione Campania è, in uno dei territori più problematici del Paese, paradossalmente, l’unica Amministrazione regionale in Italia ad avere investito risorse per un lavoro scientifico quadriennale di cui avvalersi nella stesura del disciplinare secondo i compiti che le assegna la legge 188.
Ma il fatto di grande rilevanza nazionale, che non deve essere fatto passare sotto silenzio, è che tale è la domanda internazionale di prodotti che ad un qualunque titolo vantino il nome di Capodimonte e contemporaneamente è tanto ampio lo spazio lasciato vuoto, sia in termini di produzione che di tutela, nel territorio di Napoli, che in tutto il mondo hanno avuto modo di fiorire ditte e società che inammissibilmente se ne fregiano. Si è ricordato il caso Taiwan, ma è massimamente significativo il caso per cui capita che talune missive contenenti commissioni di operatori tedeschi, destinate ad una unione di produttori di Vicenza registrati come “di Capodimonte”, vengano recapitate dalle poste italiane, ignare di questo traslocogeografico di Capodimonte nel vicentino, ad una pubblica istituzione operante nel settore ceramico e situata in quella commercialmente magica località di Napoli. In tal modo se è chiaro che il nome di “Capodimonte” è già da solo è di per sé un patrimonio che va tutelato, è ben chiaro che la sua vera tutela altro non può che consistere in una alta riqualificazione del tessuto produttivo del settore a Napoli, quale va riguardato, prima che come un diritto degli operatori cittadini, come un precipuo loro dovere, e quale oramai è sentito da moltissime parti in questa città.
Contemporaneamente, per quel che riguarda il settore ceramico e particolarmente la porcellana, è impressionante la crescita, nel territorio della città, di competenze, studi e abilità, da parte di studiosi e tecnici di ogni tipo – storici dell’arte ceramica, storici della tecnologia, specialisti di archeometria, chimici, progettisti, decoratori, foggiatori, formatori, tornitori, tecnici dei forni, specialisti della conservazione -, e tra questi è tanto alta la domanda di occupazione e di impiego adeguato, che, alla fine, è difficile indirizzare la ricerca delle responsabilità per cui è, sino ad oggi, mancata la possibilità e quindi necessaria fioritura di un settore dell’economia regionale che non è né azzardato né privo di rigore considerare apportatrice di benessere a livelli tali da incidere sul bilancio nazionale.
È, dunque, per questo motivo che il disciplinare per la denominazione di origine controllata per una produzione che, considerate le premesse storiche ed il patrimonio scientifico e tecnico del territorio, dovrebbe essere e, per certi versi, è sia pure in forma larvale e degradata, un vanto ed una ricchezza nazionali, deve essere concepito, presentato ed applicato con la chiara consapevolezza che esso sarà, alla resa dei conti, una sterile esercitazione scrittoria, la coltivazione di un vuoto mito pseudogiurispudenziale, senza una struttura istituzionalizzata che offra ai produttori quei servizi senza i quali i loro prodotti saranno qualitativamente intercambiabili con quelli in resina di Taiwan e da essi surclassati quanto a costi e ricavi. Tale struttura, dovrà servire, inoltre, anche alle istituzioni preposte alla amministrazione del settore per sostenerle con le proprie competenze tecniche nell’espletamento dei loro compiti istituzionali specifici23.
Di fronte a trasformazioni in atto nell’economia mondiale che vanno tutte nella direzione più decisa dell’integrazione e dell’interconnessione e sono di portata tale che è sempre più problematico “definire un concetto di economia nazionale”24; di fronte alla proiezione coatta delle produzioni regionali in un mercato in cui i 320 milioni di cittadini della Comunità Europea non rappresentano che una quota minoritaria della cifra e della domanda dei cittadini di mondi come quelli asiatico ed oceanico, anche per confrontarsi più fortemente con i quali la Comunità Europea si è costituita come tale; di fronte alla constatazione oramai ineludibile che dai soggetti economici forti sul piano mondiale vengono, di fatto, assegnati a realtà come quella dell’Italia Meridionale spazi economici al cui centro sono il turismo e l’artigianato; di fronte a tutto ciò non si può credere che il piccolo imprenditore artigiano, delle oltre 80.000 minuscole imprese campane “caratterizzate da forte natalità e da altrettanto forte mortalità”25, possa presentarsi a simili appuntamenti internazionali senza aver compiuto un adeguato salto di qualità.
Dunque, occorrerà che ci si persuada che la battaglia per la riqualificazione e la promozione della produzione della porcellana e della terraglia a Napoli avrà come suo unico terreno quello del sostanziamento di un disciplinare, correttamente concepito e applicato, con una reale e dispiegata produzione capace di competere con le produzioni concorrenti sul piano della qualità. Tale produzione si potrà realizzare e rendere organica soltanto grazie al supporto di un “Centro per la porcellana e la terraglia”26, il quale fornisca quanto ad essa è indispensabile allo scopo: le ricerche e la progettazione delle linee di produzione; le ricerche per i progetti ed i prototipi; le ricerche sui materiali e sui macchinari; le ricerche sulle legislazioni regionale, nazionale ed europea che intervengono sempre più nella realizzazione del singolo prodotto come sulle scelte imprenditoriali; le ricerche di mercato e sulla ottimizzazione dei costi; le forme di promozione che divengono, in questo settore, sempre più articolate e di taglio colto; le analisi, prove e certificazioni; le manifestazioni di supporto; i corsi di perfezionamento per ogni ordinedi figura tecnica dell’impresa27; le indicazioni sui tecnici, operatori e specialisti reperibili sul mercato del lavoro e le consulenze in generale28. E’ inutile dire quale bisogno abbia il Mezzogiorno d’Italia di una struttura del genere e quali possibilità abbia questa, una volta realizzata, di proiettarsi in quello che è storicamente, politicamente e culturalmente il suo naturale spazio, il Mediterraneo. Per altro, il progetto di un “Centro sperimentale per la porcellana, centro di servizi comuni per i produttori del settore” fu già messo a punto e presentato a tutte le istituzioni competenti del territorio già nel 1988 dall’Istituto “G. Caselli”29. Che ciò si sia verificato sette anni fa, e contemporaneamente alla realizzazione del “Centro” di Faenza, legittima ancor più le aspettative al riguardo di una parte non insignificante degli operatori del settore. Per tale progetto si è ipotizzato anche l’inserimento nei piani regionali con finanziamento CEE, e la sua realizzazione è sembrata ricorrentemente sul punto di avviarsi. Così, l’impegno scritto dell’allora assessore regionale all’Industria ed Artigianato “per coordinare, attraverso gli altri Assessorati, l’iter procedurale affinché lo stesso (il progetto) trovi una maggiore definizione degli Enti preposti all’attuazione per poi passare all’approvazione e realizzazione”30, è stato il coronamento di pluriennali sforzi sin ad oggi tristemente inutili.
Ora, l’occasione vuole che l’approvazione, si può dire unanime, che tale progetto suscitò, allora, presso i vertici delle Amministrazioni Regionale, Provinciale e Comunale, si traduca coerentemente in atti concreti, poiché un “parco” scientifico, tecnologico, di progettazione e ricerche, quale si è qui delineato, è assolutamente indispensabile per creare una sostanza ed un adeguato soggetto per l’applicazione del disciplinare in questione31.
Poiché la fonte delle ricchezze, con cui tutto viene sostenuto in una comunità civile, è la produzione, è un non-senso che dei produttori siano sostenuti e assistiti da appositi apparati di sostegno, barbacani e pali puntellati una economia crollante ed inattiva, sempre contesto ed ospite di elementi fittizi e parassitari. Nel rapporto con le istituzioni e le altre forze civili, quanto veramente occorre a dei veri imprenditori sono servizi assumibili alla stessa stregua di merci e beni primari, ciò che per la grande industria è stato indicato come “know-how”, ovvero “conoscenze”, e che per un settore erede degli episodi produttivi e delle tecniche di maggior cimento e più prestigiose d’Italia e con i quali è un rapporto di continuità mai completamente estinto32, è altrettanto vitale che per l’industria ad alta concentrazione di tecnologia.
In conclusione, il disciplinare, correttamente, può costituire solo l’aspetto normativo di una operazione di grosso respiro produttivo, di ricerca scientifica, di impiego di lavoro altamente qualificato, di promozione e, insomma, di respiro economico dell’ordine che qui si è cercato di rappresentare.
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1 È documentata nel modo più chiaro la preoccupazione politica di Carlo III a Madrid che il figlio riuscisse a far rivivere la fabbrica rompendo, così, la sua esclusiva. Così il suo ex primo ministro e, di fatto, suo emissario alla corte di Ferdinando IV, Bernardo Tanucci, seguendo accuratamente tutti gli sforzi di questi, informa l’anziano ex re di Napoli di ogni passo fatto per realizzare la fabbrica di porcellana, ed anzi, in una lettera a questi del 14 gennaio 1772, lo rassicura che un ex lavorante della fabbrica di Capodimonte, Francesco Chiari, che si era offerto per collaborare alla realizzazione del progetto “non tiene il segreto, benché fosse qui nel servizio della fabbrica della porcellana”. Vedi F. Strazzullo, Le manifatture d’arte di Carlo di Borbone, Napoli 1979, p.149. Dunque la fabbrica di Ferdinando nacque esattamente come ripresa e rinascita della fabbrica di Capodimonte e come tale fu seguita con precise attenzioni da Carlo III in Spagna.
2 “Il primo periodo di produzione, quello di Capodimonte, è certamente, e meritatamente, il più celebre”, è questo il giudizio, non privo di ragione, di A. Carola-Perrotti, Porcellane e terraglie dal tardo-barocco al liberty: Napoli a confronto con l’Europa, in AA. VV., Porcellane e terraglie dal tardo-barocco al liberty, Napoli 1984, p.50.
3 Vedi ivi, stessa p.
4 Vedi scheda di S. Musella Guida, Il salottino di Maria Amalia, in Porcellane di Capodimonte. La Real Fabbrica di Carlo di Borbone 1743 – 1759, a cura della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Napoli, Napoli 1993, pp. 88-93. Al riguardo, non si può ammettere l’abuso di formulazioni estemporanee, suscitate dalla fama del monumento, per cui A. Blunt, Sull’uso e abuso di ‘Barocco’ e ‘Rococo’ in architettura, in A. Blunt, C. De Seta, Architettura e città, Napoli 1978, p.39, in una nota, può assicurare lapidariamente che “ la stanza di porcellana…fu disegnata e fatta da artigiani di Meissen che lavoravano nella fabbrica di Capodimonte”.
5 Ne fà un cenno Musella Guida, op. cit. p. 88. La stessa discute più articolatamente dell’ “impresa” in Precisazioni sul salottino di porcellana di Portici, in “Antologia di Belle Arti”, 5 (1978), pp. 73-76, ipotizzando, senza una vera ragione, due cantieri, uno ‘ industriale’ e l’altro ‘artistico’, dove è chiaro che non si possa considerare quello di Capodimonte né un ‘cantiere’, né l’unica manifattura impiegata nel caso, e che quel manufatto complessivo richieda di essere spiegato con un cantiere a cui fa capo un sistema di opifici e singoli progettisti ed artefici specialisti coadiuvati da generici e manovali di ogni sorta, senza distinzioni fondate su moderni e discutibili criteri estetici. Lo “Spoglio delle scritture appartenenti alla Real Fabbrica della Porcellana di commissione del Marchese Ricci (1771)”, vedi Strazzullo, op. cit., pp. 179-82, mostra doviziosamente l’intervento organato, in un unico cantiere, di “mastri operaii” e capomastridi imprese artigiane, vetrai, piombasti, pipernieri, concorrenti alla sistemazione della Real Fabbrica di Portici, per le cui attrezzature specifiche il modellatore capo Francesco Celebrano compila cinque distinte note di spesa. Situazioni del tutto analoghe sono quasi sempre mostrate dagli atti delle liquidazioni per opere fatte eseguire da signori e membri della casa reale in quegli anni, vedi ivi, pp. 175-8 e passim. Una documentazione ricchissima intorno a simili cantieri, con l’intervento di intagliatori, falegnami, stuccatori, pipernieri, marmorari, “riggiolari”, etc., è nell’eccellente F. De’ Rossi, O. Sartorius, Santa Maria Regina Coeli. Il monastero e la Chiesa nella storia e nell’arte, Napoli 1987, la cui utilizzazione persuade essere il cantiere del “salottino” null’altro che l’aggiornamento ai gusti dell’epoca e allo speciale committente, con gli speciali problemi tecnologici che ne derivano, del complesso cantiere cinquecentesco. La congettura di Musella Guida è ripresa acriticamente da P. Giusti, Il salottino di porcellana di Portici, in Le Porcellane Dei Borbone di Napoli. Capodimonte e Real Fabbrica Ferdinandea 1743 – 1806, a cura di A. Carola-Perrotti. Museo Archeologico Nazionale di Napoli 19 Dicembre 30 Aprile 1987, Napoli 1986, p.48.
6 Nuove notizie sulle sperimentazioni intorno alle lastre di rivestimento per questo “salottino” vedi M.R. Buonagurio, New findings at the royal porcelain manifacture of Capodimonte, in Fourth euroceramics – volume 14 – The cultural ceramics heritage, 3rd European meeting on ancient ceramics. Archeometric and Archeological Studies, edited by B. Fabbri, p.301, fig.8.
7 E’ del tutto inammissibile, come metodo storico, la pretesa, espressa da A. Gonzàles-Palacios, Le arti decorative e l’arredamento alla corte di Napoli: 1734-1805, in Civiltà del ‘700 a Napoli 1734-1799, secondo vol., Napoli 1980, pp. 93-4, di confutare la testimonianza di un tecnico di prim’ordine come Luigi Vanvitelli il quale, in una oramai nota lettera del 17 giugno 1758, attesta di aver visto quel pavimento. È tecnologicamente del tutto errata l’idea tenuta da questo autore che lastre in porcellana non possano essere sottoposte a calpestio, in quanto simili lastre debitamente allettate su di un supporto stabile sono sottoposte, con larghissima prevalenza e non diversamente dalle “riggiole” in terracotta, a sollecitazioni di compressione e non a momenti flettenti o torcenti, così che è nota, oggi, una produzione spagnola di piastrelle in porcellana per pavimenti. Inammissibile, infine, che venga ignorato essere la produzione cinquecentesca, in impasti ceramici assai simili a quelli che saranno impiegati nella Real Fabbrica, di “ pavimenti contraffatti che paiono pietre mischie” , propria di Bernardo Timante Buonaccorsi, più noto come Bernardo Buontalenti, alla corte di Alfonso II signore di Ferrara, secondo la precisa e competente testimonianza di Giorgio Vasari, Le vite dei più eccellenti scultori, pittori e architetti, Roma 1991, p. 1347. Restano sconosciute le circostanze per cui sarebbero contraddittorie le “testimonianze antiche” intorno a questo pavimento e quali sarebbero i pretesi “documenti” atti a suffragare che esso fosse “in lastre di marmo, o scagliola, dipinte “ad uso di porcellana” di cui asserisce la esistenza N. Spinosa, Le porcellane di Capodimonte, Milano 1983, p. 186, accreditando come più “attendibile” l’ “ipotesi” di Gonzales-Palacios.
8 Vedi Giusti, Il salottino, op. cit. , pp. 49-56, la quale vanamente si sforza di sottrarre quell’arredo di interno all’ambito, che gli è connaturato, di versio europea barocca degli apici più alti degli arredi cinesi curata secondo modalità codificate e con ricerche condotte, lungo i percorsi di Matteo Ripa, da orientalisti del tempo su tutti i fronti di acquisizione di notizie sulla Cina, dalle incisioni, alla lingua, alle immagini degli strumenti musicali. Tra questi, i cimbali ed i flauti hsiao costituiscono la punta più alta, che compaia in quell’immaginario di porcellana, della cura filologica degli studi rispettivamente sul mondo centroasiatico e su quello cinese. Per altro, non si può dimenticare che, in Europa, dai tempi di Marco Polo, la porcellana era la sintesi ed il paradigma della Cina e che, dunque, “tutto in porcellana” valeva necessariamente “tutto cinese”.
9 Vedi A. Dolcini, La D.O.C. alla Ceramica italiana. Legge 188 – Criteri di coordinamento ed attuazione, Faenza 1991, p.118.
10 L’Artigianato in Campania, Napoli 1984, p.85: in particolare vedi le analisi di V. Aloia, Artigianato e formazione professionale e di G.A. Marselli, Artigianato e società, pp. 47-8. Entrambi i saggi, come anche quello di F. Tortorelli, L’artigianato nella realtà socio-economica della Campania, ivi, pp. 53-82, presentano un quadro nettamente più incisivo e veritiero di quello anodino e trasfigurato di L’artigiano produttivo nel centro storico di Napoli, a cura della Società Studi Centro Storico Napoli, Roma 1992, che pure tratta di uno degli aspetti più salienti dell’artigianato campano (utile la bibliografia).
11 Vedi Dolcini, op. cit., p.118.
12 Si è già visto, a nota 2, il giudizio di Carola-Perrotti.
13 L’arte della ceramica. Capodimonte, Milano 1972, p.196. Proseguendo, l’autore insiste nel denunciare la “erronea convinzione, tuttora incredibilmente diffusa, che la marca di Capodimonte sia una N coronata”. Per altro, la emblematizzazione delle due fabbriche borboniche con un unico emblema è legittima e necessaria perché, dovendo adottare un unico marchio, è il giglio azzurro, quello dei due marchi di tali fabbriche, che è paradigmatico delle loro produzioni come di quelle che le hanno immediatamente seguite, tanto che queste ultime sono state erroneamente riunite sotto il nome associato a tale marchio. Infatti, nello stesso luogo, Stazzi ricorda come De Eisner Eisenhof facesse rientrare sotto il nome di “porcellane di Capodimonte” anche quelle “di Ferdinando IV e persino quelle più tarde di Foulard-Prad e successori”.
14 Vedi ivi, p. 199, fig. XXXII-XXXVIII; Porcellane di Capodimonte. Op. cit., p. 236. Per una bibliografia aggiornata sull’argomento vedi ivi, pp. 237-39.
15 Vedi G. Donatone, La terraglia napoletana (1782-1860), Napoli 1991, passim, figg. 1-36. Mentre la produzione di terraglie normalmente si tiene a livello di quella contemporanea di porcellane, come ben mostrano tutte le restanti opere ivi studiate ed un congruo numero di manufatti del Museo Artistico Industriale di Napoli, vedi Carola-Perrotti, Porcellane e terraglie, op. cit., figg. 25, 49-53, 54-61. Vedi anche della stessa, La “creta all’uso inglese”, in Le Porcellane dei Borbone, op. cit., pp. 586-7; G. Donatone, Un piatto di terraglia della R. Fabbrica, in “Antologia di Belle Arti”, 5 (1978), pp.72.
16 Continuano ad essere pubblicate nuove importanti opere in terraglia utili addirittura a conoscere meglio la complessiva produzione artistica sculturale napoletana del tempo, vedi G. Donatone, Lo scultore Gennaro Laudato e la terraglia della Real Fabbrica di Napoli, in “ Centro studi per la storia della ceramica meridionale. Quaderno 1991”, pp. 39-43. Sulla terraglia del primo Ottocento della Manifattura Giustiniani vedi dello stesso, Ancora sulla terraglia napoletana, ibidem, pp.47-54. Ancora nel 1880 si produceva un’opera di grandissimo impegno come il grande gruppo con allegoria del mare del Museo Artistico Industriale di Napoli, vedi Caròla- Pernotti, Porcellane e terraglie, op. cit., fig. 79.
17 Dove si ottennero “terraglie candidissime” con materiali locali, vedi L. De Mauri, L’amatore di maioliche e porcellane, Milano 1956, p. 189; F. Battistella, Appunti sulla fabbrica di terraglia “all’uso d’Inghilterra”, maiolica e porcellana del duca Pasquale D’Alessandro e Pescolanciano, in “ Rivista Abruzzese”, a. XLI, 3 (1988), pp. 196-203. Mentre non è ancora accertato che in quella fabbrica si producessero veramente porcellane.
18 Vedi Donatone, La terraglia, op. cit., figg. 35-6. Se ne conosce una replica di fabbrica siciliana. Un altro caso è quello del calamaio in terraglia con la personificazione del Tempo del Museo Civico di Baranello, vedi ivi, fig. 46.
19 Vedi Dolcini, op. cit., p. 118.
20 Tale ricerca ha prodotto gli atti delle “Giornate di studio sulla ceramica europea con la presentazione della ricerca sulla composizione e tecnologia di produzione della porcellana d’epoca di Capodimonte”, Napoli, Parco di Capodimonte, 9-10 dicembre 1993, Napoli 1995. E’ del tutto specifico, in particolare P. Giusti, La porcellana di Capodimonte nel contesto europeo, capp. Definizione del lessico e sua normalizzazione, Identificazione delle forme e confronto con oggetti datati e musealizzati. Individuazione di archetipi o forme perdute nella pratica della manifattura di Carlo di Borbone, pp. 59-74.
21 Ci si è avvalsi, inoltre, delle ricerche specifiche dell’ “ Istituto per lo Studio e la Produzione dei Manufatti Tecnici ed Artistici” sul divenire delle manifatture artistiche in relazione alle tradizioni produttive. Per la recente scoperta, dovuta a tale Istituto, le rocce con cui si preparavano gli impasti della porcellana della Real Fabbrica ed altri nuovi frammenti di scarti di fabbrica della stessa – presentati per la prima volta alla manifestazione RESTAURO. Salone dell’Arte del Restauro e della Conservazione del 1995 a Ferrara – vedi Buonaugurio, New findings at the royal porcelain, op. cit., pp. 293-304.
22 M.R. Buonagurio, Presentazione della manifestazione, in “Giornate di studio”, op.cit., p.11. Lo stesso disciplinare elaborato da questo Istituto in base alla legge 1910 del 3/09/1961, si fondava appunto su questa ricerca secondo la presentazione che se ne faceva negli atti del Convegno sul tema: Il ruolo della produzione ceramica nell’economia della Regione Campania. Prospettive ed adempimenti in relazione alla legge 188/90, a cura dell’Istituto Professionale di Stato per l’Industria e l’Artigianato della Porcellana e della Ceramica, Napoli-Parco di Capodimonte 1990, p.9, dove si evidenziava il ritrovamento delle vecchie cave da cui si estraevano le materie prime per la Real Fabbrica, la definizione dei modelli, forme, tipi, etc. della stessa.
23 Non si può dimenticare che l’articolo 8 della legge 443 del 1985 attribuisce alle regioni le materie attinenti alla formazione imprenditoriale artigiana. Vedi Raccolta unitaria delle leggi regionali in materia di artigianato, a cura del Centro Studi Regionale Campano, Napoli 1989, p. 84.
24 C. Rota, Dalla parte degli artigiani, Napoli 1990, p.34, nel quadro mondiale in cui situare la sua analisi dello stato dell’artigianato campano osserva appunto questo.
25 E’ la esatta raffigurazione che ne fa Rota, op. cit., p.37, aggiungendo alla nota che il “saldo” è positivo e la categoria è in espansione, la pertinente osservazione che il fenomeno è sintomo “di vivacità ma anche di approssimazione e scarsa lungimiranza imprenditoriale”.
26 L’Agenzia Polo Ceramico di Faenza, agenzia di sviluppo e servizi per la ceramica, è una società consortile a capitale di maggioranza pubblico, “creata con lo scopo di favorire il consolidamento, lo sviluppo e l’innovazione… del distretto ceramico faentino”. Essa opera in collegamento con gli Enti e le strutture del comparto ceramico, particolarmente con CNR, ENEA e Università e “ si configura come cerniera tra l’area della ricerca e quella della produzione ed agisce come struttura per la erogazione diretta di servizi, per la valorizzazione del settore ceramico e la formazione professionale”. Comprende quattro sezioni: laboratori (di analisi, tecnologici, per la ceramica artistica); sportello tecnologico ( per servizi di documentazione, informazione e consulenza; banche dati e di immagini); convegnistica e formazione (congressi, convegni, mostre e fiere, formazione di personale, corsi specialistici sulla ceramica artistica, industriale ed avanzata); promozione e trasferimento tecnologico (per iniziative di promozione e commercializzazione, trasferimento di innovazioni per prodotti e processi). E’ più che legittima la convinzione che la tradizione di Capodimonte combaci, con almeno altrettanto diritto, con una struttura del genere. Vedi lo stampato Agenzia Polo Ceramico, Faenza s.d., (ma 1995).
27 Sottolinea come “la formazione vada concepita come parte di intervento complessivo di sviluppo al servizio dell’impresa; un vero e proprio servizio all’impresa”, C. Rota, Istruzione e Formazione professionale in Campania, in Istruzione e formazione Professionale in Campania – Atti del Convegno a cura dell’Ente Morale Mondragone, con il patrocinio della Regione Campania, Napoli, 3 maggio 1991, p. 31.
28 Tortorelli, L’artigianato nella realtà socio-economica, op. cit., p. 56, sottolinea l’esigenza di sostenere la produzione delle aziende artigiane in “ tutti quei momenti organizzativi che precedono e seguono l’esecuzione del ciclo produttivo inteso in senso stretto”, così eludendo proprio il punto centrale che è quello dell’elevazione generale della qualità esattamente dell’ “esecuzione del ciclo produttivo in senso stretto”, cioè della costituzione di un reale soggetto produttivo. Il quale altrimenti è destinato solo a vivere in quella politica assistenzialistica che appunto consiste nell’occuparsi di quanto segue e precede un processo produttivo la cui reale esistenza non è condizione per agire e neanche è appurata. In tal modo ci si occupa di tutto quanto sia il più lontano dal “ ciclo produttivo in senso stretto”, come di quel “Demanio di laboratori artigiani regionali” in quel contesto proposto. Quanto all’idea, oggi regolata severamente dai tempi, che quel sostegno potesse essere fornito dall’ERSVA, già allora era da porsi a confronto con una voce, quella di C. Rota, Dalla parte degli artigiani, op. cit., p.36, che, dai vertici stessi di questo ente, avanzando dubbi sull’essere questo all’altezza dei suoi compiti di sostegno, ne invoca la “rifondazione”, pp. 47-53. Né alla “tattica inconcludente e sprecona” attribuita all’ERSVA nella “Presentazione”, p.7, pare estranea la circostanza che anche in questo libretto, tra i servizi da offrire alle aziende artigiane, non venga mai ipotizzato quello di fornire progetti ed informazioni circa le modalità di svolgimento del processo produttivo.
29 Vedi il fascicolo dallo stesso titolo pubblicato, nello stesso anno, a cura di questo Istituto. L’accenno che ivi si fa, p.1, alla estrema frammentazione dei piccoli produttori coincide pienamente, oltre che con il quadro indicato da Rota, op. cit., p.37, con l’analisi di Marselli, op. cit., p. 48, dove si parla di “estrema frammentazione” e di “polverizzazione”, ed è da considerarsi l’esatta osservazione di uno stringente dato di partenza nella considerazione della opportunità di questo progetto.
30 Vedi Convegno sul tema: Il ruolo della produzione ceramica nell’economia della regione Campania. op. cit., p.13.
31 La stretta connessione tra la Legge 188 ed un centro per la porcellana era già stato sottolineato con decisione nel 1990 nel Convegno sul tema: Il ruolo della produzione ceramica nell’economia della regione Campania. op. cit., dove, p.10, il progetto del “centro” o “polo ceramico” fu addirittura rivendicato come precorritore della Legge 188 ed auspicato in una mozione approvata all’unanimità, laddove partecipavano il Sindaco di Napoli, l’assessore regionale all’Artigianato Commercio e Industria, il vicepresidente dell’ERSVA, il segretario della Commissione Regionale Artigianato, i rappresentanti sindacali del settore a livello regionale e nazionale, i sindaci dei comuni di tradizione ceramica della Campania.
32 E’ di questi anni la morte di uno splendido artefice della porcellana come Mario Borrelli, docente dell’Istituto “Caselli”, che, in tutto, avrebbe potuto essere un formatore della Real Fabbrica di Capodimonte, e che certamente era un continuatore di pratiche magistrali tramandatesi nella località.